sabato 28 gennaio 2012

Punto

Sono passati quattro anni. Ma potrebbero esserne passati dieci o cento o nessuno. Il tempo ha poco senso ormai.
Se mia madre mi sentisse pronunciare questa frase potrebbe supporre che i danni che ho subito prima che si facesse luce su quello che mi stava accadendo non siano poi così poco significativi. O che sto male di nuovo. O che stavolta sono impazzita davvero. E non solo lei credo. Credo lo penserebbero in tanti. Quelli che hanno lavorato con me, che hanno studiato con me, che hanno diviso con me tanti momenti della mia vita di prima. Io correvo sempre. Non avevo mai tempo perché lo usavo tutto. Ritenevo e predicavo che sprecare il tempo fosse il più infimo dei reati.
Anche oggi lo faccio. Intendo lo uso. Forse più di prima. Nel senso che me lo prendo tutto. Anche quello che non c’è. Solo che oggi è il mio tempo. Il tempo del mondo è un binario che incontro, sul quale talvolta, inevitabilmente mi muovo. A quale talvolta non senza rabbia soccombo. Come soccombo al tempo che talvolta il mio corpo fisico mi chiede, mi impone. Ed è strano. E’ strano perché è proprio al mio corpo, alla mia “fisicità” che sento di regalare tutto il tempo che rubo.
“Dobbiamo trattenerla”.
“Dovete trattenermi? Sono due ore che aspetto su questa barella che qualcuno venga per farmi firmare il solito foglio, senza contare le ore di attesa al Pronto Soccorso, e adesso lei si presenta qui a dirmi che dovete trattenermi? Sto bene, la vostra magica miscela ha fatto effetto, finalmente il dolore è passato e io ho tre giorni di inferno da recuperare”.
Erano due anni che andava avanti così. Ero stremata ma abituata. Stremata dalla frequenza devastante degli attacchi ma rassegnata a conviverci. Ed abituata. Abituata al percorso. Tre giorni ogni quindici di emicrania lancinante con crisi di vomito senza soluzione di continuità. Tre giorni di passione senza cibo, senza sonno, senza tregua. Nei quali sperimentavano su un cadavere incapace di urlare tutti i tipi di farmaci concessi. In tutte le forme. Finché quel cadavere non riusciva a lacrimare e a biascicare qualcosa che più o meno voleva dire ospedale. Lì, salvo le immancabili code, e il tempo per gli accertamenti di rito, con una santa flebo di diosacosa, in meno di un’ora mi rimettevano in piedi. Beh in piedi è una parola grossa. In piedi mi ci mettevo io di forza per recuperare il tempo perduto. Anche barcollando. Che cosa c’era stavolta di diverso? Stavo già maledicendo l’insana idea che mi era venuta quella notte di farmi portare al Pronto Soccorso più vicino, dove non mi conoscevano ancora.
“Vede signora abbiamo necessità di fare ulteriori controlli. Non è necessario che lei si preoccupi oltre il dovuto, ma se mi concede un attimo le spiego come stanno le cose”.
Aveva l’aria insolitamente buona e si muoveva e parlava senza la fretta tipica cui mi ero assuefatta nel tempo, smettendo anche di chiedere spiegazioni. Pensai che era stanco. O che stava dormendo e lo avevano svegliato e magari visto che gli avevano e gli avevo disturbato il sonno, a lui, al primario di neurochirurgia che chissà per quale maledizione, o benedizione, quella notte scontava un turno, tanto valeva che si desse da fare. Magari punendomi. Spinse lentamente la barella sotto un  neon perché anche io potessi vedere l’immagine. Tirò fuori una lastra da una grossa busta sgualcita e si aggiustò gli occhiali sul naso. “Vede questo piccolo punto nero qui, nella sua testa? Ce ne sono almeno altri tre, più piccoli; so che è difficile leggere questa robaccia, ma se si impegna riesce a distinguerli”. Lo guardavo inebetita. O forse erano i farmaci. Che accidente mi voleva dire? Avevo fatto almeno cinquanta tac negli ultimi due anni e ora lui se ne usciva con un puntino! “Lei ha avuto un TIA. Almeno uno, adesso”. “Un piccolo infarto al cervello” spiegò per mia madre, che alla parola infarto stava per averlo lei e per spiegarle poi quello che voleva dire poco ci mancò che non ne avessi un altro. Di TIA intendo. Attacco ischemico temporaneo. Un piccolo black out delle funzioni cerebrali. Non tutte credo, per fortuna. “Vado a casa lo stesso. Farò tutto quello che mi indicherà di fare e tutti gli accertamenti necessari, ma non qui e non ora. Adesso ho da fare.”
Ovviamente li feci. Gli accertamenti. Ovviamente costretta. Anche se, ammetto, un po’ di strizza mi era venuta. E insieme alla strizza ci guadagnai la rabbia. Perché è un tipo di cose per le quali non c’è spiegazione. Non in un soggetto giovane e sano. Questo dicevano concordemente radiologi e neurochirurghi. Che in più escludevano un nesso tra i TIA e le emicranie, tra i TIA e certi ammanchi di memoria che io lamentavo, tra i TIA e qualunque cosa potessi cercare di ricordare per aiutarli ad aiutarmi. Un puntino. Un puntino.
Una sera a cena con amici uno di loro che sapeva la storia mi prese in giro su questa cosa del punto, non ricordo neanche come. Qualcosa a proposito della mia abitudine di chiudere un’asserzione di cui sono convinta aggiungendo punto. Tra loro c’era un cardiologo. Due giorni dopo mi chiamò a casa. “Domani mattina vieni in ospedale da me. So che cosa hai.”
Ero stanca. Stanca di fare indagini, stanca di entrare e uscire da ambulatori, cliniche, ospedali. Ma Lucio fu irremovibile e perentorio. “Lo vedi questo puntino?” Dio! Ancora un puntino? Lucio stava esaminando il mio cuore. E io stavo pensando che probabilmente tutti come me hanno un odioso puntino nero ondeggiante sulla retina e che volevano per forza sgravarsene attribuendolo a me. Al mio cervello prima e al mio cuore adesso. “Compensa” disse. Compensare significa produrre all’interno una pressione che bilanci le variazioni di pressione esterne. Lo si fa per “sturarsi” le orecchie quando si passa rapidamente da una quota altimetrica ad un’altra. Lo si fa quando si va sott’acqua. E io che facevo immersioni da anni lo sapevo fin troppo bene. Attraverso il buchino passò un lampo veloce di luce blu. “E’ sangue venoso. C’è un buchino nel tuo cuore che lo lascia andare al cervello. Insieme ai residui che trasporta. E i vasi sottili di quelle aree si intasano, provocando piccoli infarti. Devo operarti”. Devo che? No, ovviamente non ci sono parole. “E’ un’operazione di routine, che facciamo sui bambini, una sciocchezza, niente di cui preoccuparsi”. No, niente di cui preoccuparsi. Tanto è il mio cuore. Tanto è lui che batte ossessivamente da quando sono nata portando avanti nel tempo del mondo questa robetta che è il mio corpo e la mia testa e i miei pensieri e i miei sogni e le mie emozioni e la mia vita. Tanto siete voi che vi infilerete lì dentro e che ci metterete le mani. Non io. Che non saprei come fare ma che accidenti è il mio cuore maledizione starei ben attenta! Certo devo saperlo che lo tratterete con cura ma… insomma quanti metaforicamente mi avranno messo le mani sul cuore? Quanti metaforicamente me lo hanno sbranato, schiacciato, infilzato, cucito, rattoppato, accarezzato? E se è una cosa da niente perché siete tutti qui, amici, parenti, mamma che piange, Lucio che sorride, fuori questa sala operatoria che chi diavolo mi ci ha portato?
Un ombrellino al titanio ha cancellato il puntino. Quello nel cuore. Per quelli nel cervello non c’è molto da fare, resteranno lì.
Sono un’ipocondriaca. Forse dipende dal fatto che ho sempre sentito, da bambina, che non sarei rimasta molto su questo mondo. Forse anche per questo ho sempre rincorso affannosamente il tempo. Ogni volta che dovevo per qualche motivo sottopormi ad un piccolo intervento o più banalmente fare un viaggio in aereo, che poi sono razionalmente consapevole che è statisticamente il mezzo più sicuro, facevo, no faccio, testamento, morale che altro non ho, per coloro che amo. Questa volta non ci ero riuscita. Non ne avevo avuto la forza. Quando mi sono svegliata davanti agli occhi ho visto tutte le volte che per un puntino avrei potuto non svegliarmi più. Per scendere in fondo al mare. Per caricarmi sulle spalle il televisore o la libreria da montare. Per far giocare i bambini a vola vola vola. E ho visto qualcos’altro. Ho visto il tempo. Ho visto tutto il tempo che non stavo vivendo da tanto, tantissimo tempo. Ho visto le corse e gli affanni; le rincorse. E ho visto occhi chiusi e mani chiuse e silenzio. E io non ero da nessuna parte. Il necessario. Il dovere. Le responsabilità. C’era tutto. Io non c’ero più.
Quando sei impegnato a vivere si dimenticano un sacco di cose. Soprattutto si dimentica di mettere dei punti. Si intrecciano fili, linee, percorsi e ci si dimentica perché. Ogni tanto mi scoprivo a contare. Contavo le cose. Le cose che facevo, i passi che facevo, persino i piatti che lavavo. E qualcosa nella mia testa voleva anche che fossero sempre pari. Fatte un numero pari di volte. Anche le cose irripetibili. Una specie di continuum forzato, credo. Ancora mi capita di contare le cose. Ma ci rido. Come rido quando sento parlare dell’importanza di vivere l’attimo, di non sprecarlo, di non perderlo. Nel mio tempo di oggi ogni attimo è infinito. E c’è un sacco di tempo per fermarsi e mettere punti. I punti sono importanti.

http://www.lavalledeitempli.net/2011/09/03/punto-di-cinzia-craus/

Nessun commento:

Posta un commento