giovedì 16 febbraio 2012

L'attesa stanca


Le montagne hanno un respiro lento. Lento e diverso. Deve essere l’incredibile peso del tempo e del mondo. Lo stare. Si perché le montagne stanno. Non si muovono. E chi non si muove può solo pensare.
Ho visto la prima volta la neve a undici anni. Dal finestrino di un treno. Sapevo che da lì a poco avrei potuto rotolarmici dentro per ore, per giorni, ma quando sei così giovane nessun sogno, nessun pensiero è bello come la realtà di un incontro e nessun incontro vale l’attesa. Mio padre dovette abusare di tutta la sua autorità per impedirmi di scendere dal treno alla prima stazione per toccare la neve. E subire l’odio rapido eppure profondo di cui solo i bambini sono capaci.
Mi capita oggi di chiedermi se sono mai stata bambina. Certo che si, che lo sono stata. Lo sono spesso anche adesso. O forse lo sono sempre. Pure credo che in qualche modo quell’attesa forzata di qualcosa che entrava, che volevo con tutte le fibre del mio essere, abbia sostanzialmente prodotto una sorta di irreversibile disequilibrio nella mia gestione delle emozioni, dei sentimenti e della ragione, del pensiero. E che da questo derivi in qualche modo il mio stare di oggi. Immobile. Come una montagna. Mentre l’immane flusso di pensieri e sogni e desideri viaggia lontano e fuori da me a muovere gli altri, quelli che mi vivono accanto. Per i quali fermo il treno. Per farli scendere a toccare la neve che io non riesco più a toccare.
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“Oddio ancora! Che altro c’è? Possibile che tu non capisca che non posso passare il giorno a telefono? Ho un milione di cose da fare io!”
Mia figlia. Mia figlia ha sempre da fare. Non ha mai tempo per niente e per nessuno. I miei figli hanno sempre da fare. Tutti hanno sempre da fare.
Avevo giurato a me stessa che diventata vecchia non avrei disturbato nessuno. Che al primo accenno di bisogno, di dipendenza fisica o mentale, mi sarei rinchiusa autonomamente in una casa di riposo per anziani dove avrei trovato le risposte a tutte le mie necessità. La totale, indiscussa e indiscutibile sudditanza che mio marito aveva per anni subito dai suoi genitori e in particolare da sua madre, gravando non poco sugli equilibri della sua e della nostra vita familiare, mi aveva fermamente convinta in questo proposito che avevo annunciato da subito, appena mio marito morì, non prima, che lui non lo avrebbe mai accettato, appena passata la soglia dei cinquant’anni, quasi ad affermare insieme una differenza ed una distanza, che sempre avevo affermato, e a dare valore ad un’idea, prima che l’età fosse tale da farla credere un delirio o un vaneggiamento.
Ero diversa da lui. E non avevo perso occasione di mostrarlo ai miei figli. Non che lui fosse sbagliato e io giusta. E’ qualcosa che ha a che fare con l’amore io credo. Con il modo di viverlo. Per lui l’amore si dimostrava con i fatti. E con la responsabilità. Con l’impegno. Ciò ne ha fatto un figlio devoto e ubbidiente. Un marito presente e fedele. Un padre… Mi chiedo spesso che immagine ne hanno avuto i miei figli. E quanto abbia pesato su questa lo stridente contrasto che la mia immagine invece consegnava loro. Lui era quello che lavorava. Lui era quello che usciva al mattino, tornava a pranzo a pretendere ordine e silenzio, usciva ancora per rientrare a tarda sera spesso in tempo solo per distribuire punizioni piuttosto che baci. Quelle che io non ero capace di dare. Certo c’era. Tutto sommato anche equo e imparziale. E amorevole. Ma quello che loro vivevano e provavano era timore. Odio spesso. Anche per me, al posto mio, quando diventati più grandi diventarono senso le parole, le urla che sovente volavano tra di noi, che li svegliavano al mattino. Che noi ci amassimo non era abbastanza per giustificare che lui mi trattasse come una bambina proprio come trattava loro. Ma probabilmente lo ero e lo sono. Sospesa in un mondo in cui l’amore è dare, regalare, concedere, proteggere, comprendere. Mia figlia non sa quanto mi assomiglia.
Nessuno dei miei figli si è sposato. E’ capitato spesso che io mi sia chiesta perché. Perché nessuno di loro crede in quest’istituzione, la rifuggono quando non apertamente li ripugna. In fondo ci hanno visti tenerci per mano. Ci hanno visti uniti. Nessuna crisi, nessun tradimento, nessun uragano ha attraversato i venticinque anni del nostro matrimonio. Eppure i loro amici che hanno visto deliri, fughe, pianti, ritorni, separazioni, battaglie, avvocati, tribunali, si sposano. E le loro madri si vestono a festa e sono circondate da figli e nipoti adoranti. Le urla. Le urla per le cose più stupide e più banali. A volte mi dico che son state quelle. Quelle che mia figlia mi rinfacciava di subire in silenzio ogni giorno accusandomi di essere più debole di una bambina. Di ubbidire agli ordini. Così come mio marito ubbidiva a quelli dei suoi. E della società. Nessuna volontà, nessun desiderio, nessun sogno che non fosse impegno, convenzione. E il silenzio fuori dalle mura di casa. In realtà per me anche dentro. Lei invece quando urlava i suoi desideri spalancava le finestre e diceva io voglio farmi sentire. Io non sono ipocrita. E non mi importa cosa si pensa fuori da qui, se per gli altri è sbagliato ed è giusto per me.
Dice che non ha tempo. Lei non ha niente da fare. Niente da fare oltre che pensare. E’ sola. E’ sola perché non ha voluto smettere di urlare, non ha voluto scendere a patti, non ha mai voluto piegarsi. Anche nel lavoro. E’ sola ed avrebbe tempo, tutto il tempo del mondo per ascoltarmi. Per ascoltare le cose inutili che riempiono le mie giornate vuote che non so con chi dividere. Da quando mio marito è morto mi faccio sgridare da loro, dai miei figli. Perché spreco oziosamente il mio tempo davanti alla televisione, perché getto via la mia cultura e la mia voglia di fare trascinandomi tra le immagini su uno schermo che propone improbabili vite di improbabili persone. Perché non leggo, non esco, non viaggio, non penso. Perché non cucino. O se lo faccio sembra quasi stia facendo l’ultima delle eroiche imprese di un guerriero in fin di vita. Perché non mi vesto, non mi pettino, non mi trucco. Perché non vado dal medico. Finché non mi ci portano loro. Come avevo giurato non sarebbe accaduto mai. A loro ci penso. Per loro mi preoccupo. Ma è vero, dura poco. Il tempo della pubblicità. Poi riprende il telefilm, la soap opera, la sit-com e i pensieri si fermano. E smettono di fare male.
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“Oddio ancora! Che altro c’è? Possibile che tu non capisca che non posso passare il giorno a telefono? Ho un milione di cose da fare io!”
Ancora mia madre. Un tormento. A volte mi dispiace trattarla così. Specie perché la trattiamo tutti così e lo so. Potrei fare come faccio a volte con le persone noiose e ripetitive, che in salsa diversa ti servono – perché si servono, senza mai cambiare, senza mai imparare, senza mai riflettere – sempre lo stesso delirio, sempre lo stesso lamento: potrei, non senza insieme una vena di sadico compiacimento e un vago senso di colpa da insensibile indifferente, poggiare la cornetta sul tavolo e lasciarla parlare, magari in viva voce, in modo da mugugnarle in risposta ogni tanto un si, mmmhhh, ah, beh. Il punto è che lei ha in più una voce e un tono incalzante. Da insegnante. Che era insegnante. E in realtà lei non si lamenta, né racconta sempre la stessa storia, anche se a volte la memoria la inganna e finisce per ripetersi, ma ne racconta cento, tutte insieme, spesso mischiate, o senza capo né coda, che magari ce l’hanno ma in conversazioni rimaste soliloqui o fatte con qualcun altro che pure non ascoltava, e nessuna sua, nessuna che parli di lei o almeno di cose che contano, di persone che contano. Ok, non è proprio così. A volte in mezzo a milioni di parole inutili qualcosa che bisognerebbe sapere c’è, che cerca di dirci, di comunicarci, a volte di chiederci. Pecca di sintesi. E non ha rispetto del tempo. Forse è questo che ci manda in paranoia. O il fatto che in fondo sappiamo che è solo un modo per non stare da sola, per non sentirsi sola. E ci fa male. Molto in fondo. Il punto è che ci fanno male molte cose. Mi fanno male almeno. Mi fa male che a cinquant’anni mia madre abbia chiuso gli occhi alla vita insieme a mio padre che dalla vita ha dovuto andarsene. Mi fa male che li abbia chiusi anche prima, per essere la (sempre imperfetta per lui) brava moglie e madre di famiglia. Che per farlo abbia lasciato la scuola. Che abbia ingoiato veleno e parole scambiandole con dedizione ed amore. Mi fa male che cultura, vivacità, capacità critiche, conoscenza, esperienza, consapevolezza storica siano finite in una gabbia di moralità borghesi e convenzioni prima e nelle tele viziose dell’anticultura televisiva poi. Perché mamma non esiste più. Esiste una sequenza di orari programmati nei quali e per i quali trascina la vita da una storia ad un’altra. Fuori dal mondo e da lei. Si lamenta che non la ascoltiamo. Poi quando andiamo da lei non possiamo parlare, che altrimenti non riesce a seguire i “suoi” programmi. In tv. E mi fa rabbia che so che c’è, da qualche parte. Quando riesco a costringerla a leggere un libro e le vedo l’emozione negli occhi. Il fuoco di quello che era. Quando a forza la portano fuori di casa per un buon film, per uno spettacolo, per una mostra. E per qualche giorno si ricorda di lei.
Mi fa male che a volte mi guardo. Mi guardo nel tempo della mia vita che passa. Io ho scelto di non ubbidire. Io ho scelto di non rinunciare. Eppure tra le mani ho meno di niente. Ho meno di lei. E tutto il mio cercare, il mio correre, il mio volere, il mio non fermarmi non mi ha portato in nessun posto. Mi ha portato qui. Dove immobile lentamente osservo. E regalo, comprendo, proteggo, ascolto.
Mia madre avrebbe voluto scendere dal treno a toccare la neve con me. Io lo so. Ma ha ubbidito, in silenzio, e non l’ha fatto. Io ho fatto scendere dal treno mio figlio a farlo. Prima che lo chiedesse. E abbiamo rischiato di non riuscire a riprenderlo. Io resto in mezzo. Un urlo, un silenzio, un’attesa, un regalo. Arrivato troppo tardi.


http://www.lavalledeitempli.net/2011/09/24/lattesa-stanca-di-cinzia-craus/


Abbracciami


“Sono preoccupata per Bea.” Non aveva ancora detto nulla Teresa, da quando era rientrata, più tardi del solito, e in fretta e furia si era messa ai fornelli perché la cena non subisse ritardi. Non aveva parlato neanche mentre apparecchiava la tavola, con cura, come sempre, come piaceva a lui, con i piatti buoni, i bicchieri di cristallo, le posate schierate secondo galateo. Per una cena cena. Come piaceva a lui che poi se invece si sceglieva di mangiare “strano”, come piaceva a lei, era però il primo a divertirsi a mangiare con le mani, o con le bacchette, o con quei lunghi stuzzicadenti con i quali lei serviva certi bizzarri contorni africani. Magari a terra, sdraiati sui cuscini. O acciambellati intorno a quel tavolino basso che lei aveva voluto apposta per le sue “variazioni” esotiche. Non mangiava volentieri Teresa. O meglio, si stancava. Si annoiava. Come di tutto ciò che era ripetitivo. Ancor più se riteneva che fosse qualcosa che in qualche modo doveva procurare piacere. Pure la sua ricerca di variazione non era mai affannosa, mai affettata; era anzi gioiosa. Una piccola sfida costante che le accendeva la voglia di esistere. Per scoprire ancora.
Adesso, a tavola, finalmente rilassata, le prese il bisogno di condividere quella sensazione di angoscia che le aveva messo addosso il suo incontro con Bea, la sua amica di sempre. D’altra parte era normale. Condividere. Teresa gli raccontava tutto, da sempre. E lui amava stare lì ad ascoltarla, l’avrebbe ascoltata per ore. Si incantava ad ascoltarla. I loro pensieri si incontravano sempre, anche quando magari partivano da punti lontani, finivano sempre per arrivare in un posto dal quale riuscivano a ripartire insieme. “E’ di nuovo in una storia. Alla quale lei stessa, come sempre, non concede un futuro.”
Bea e Teresa si conoscevano da tanto tempo. Una di quelle amicizie basate su un’affinità profonda dell’animo. Potevano non sentirsi, non vedersi per mesi, ma c’era sempre come un filo a tenerle unite. E per quanto negli anni le loro vite si fossero divise, trasformate, quel comune sentirsi, dentro, era rimasto immutato. Si riconoscevano.
“Io la capisco. Tutto quello che ha vissuto, che ha visto. Le ipocrisie. Le ipocrisie più basse e insensate, in nome di valori che non si sentono ma si decide di difendere. E peggio. L’incapacità a riconoscersi ipocriti. Il dito puntato contro gli altri, la lingua come una lama tagliente e impietosa, lo sguardo fiero di chi è senza peccato. Teso a guardar fuori, a giudicare gli altri e mai sé stessi. Spesso delle stesse identiche colpe.” “Vuoi dell’altro arrosto, amore?” “Senza contare quello che lei è. Come è fatta. La sua libertà, l’apertura mentale, l’insaziabile curiosità che le rende impossibile riconoscersi, o imporsi, dei limiti o dei pregiudizi. La versatilità con cui riesce a viversi e spendersi in pianeti talvolta diametralmente opposti, perfettamente a suo agio dovunque. Beh, sì, dovunque tranne dove si mente per vivere. Cioè un po’ dovunque. Dovunque almeno in quel mondo di cui poi in fondo è fatta, perché in quel mondo ci è nata e cresciuta, a cui ha dato battaglia ma che l’ha comunque formata, riempita. Ti ricordi quando diceva è colpa dei libri? Colpa di tutto questo maledetto sapere, e la filosofia e la psicologia e l’osservazione e la profondità? Sì che te lo ricordi. Te lo ricordi perché lo dicevo sempre anche io. Ne parlavo spesso anche io e te. I ribelli passano la vita a tagliarsi radici che inevitabilmente ricrescono. Che li rendono diversi per tutti. Da tutti. Da quelli che rifuggono e da quelli in cui non riescono a ritrovarsi. Se non in misura parziale.”
“Ho preso delle paste di mandorla, ne vuoi?” Teresa liberò la tavola da tutto ciò che non occorreva più, con cura raccolse le briciole e tornò con un grazioso vassoio con su piccole delizie sobriamente decorate, due piccoli calici e una bottiglia di passito di Pantelleria.  Sceglieva lei il vino, da sempre. Anche se una volta su questo avevano discusso. Ma alla fine l’aveva spuntata, dopo tutto era lei che cucinava e faceva la spesa. Aprì il vino e riempì lentamente i calici. “E’ la sua “pienezza”. Finisce sempre per diventare troppo, per fare paura. Anche a lei stessa. Che non ammette di dover rinunciare a parte di sé per compiacenza. Pur ammettendo che trovare qualcuno con cui potersi vivere appieno su tutto, su troppo, è quasi impossibile. Ormai lo ammette d’anticipo.”  Bevve il vino d’un fiato.
Lui rideva quando lei beveva così. Mandando al diavolo le etichette insieme al pregio di quello che aveva accuratamente selezionato. Rideva perché sapeva che dietro quel gesto c’era insieme la voglia di mandar giù qualcosa che la feriva e il desiderio di riafferrarsi prima di farsi male. Con l’allegria e la leggerezza. O con l’abbandono. D’altra parte era così che si erano conosciuti. Con troppe cose da buttare giù. Con il mondo da buttare giù. Con le radici a crescere e loro a tagliarle, con le paure a dirsi a raccontarsi e le parole a piovere a dirotto, a difendersi dalle paure. A cercarsi per riconoscersi, per accettarsi, per perdonarsi. Teresa riempì ancora il bicchiere e si accese una sigaretta.
“Sta bene sai. Se la guardi ti sembra la Bea di venti anni fa. Che fa la tosta ma la vedi che non ci riesce.” Bevve ancora. Un brivido le percorse la schiena. “Ma dietro gli occhi e nelle mani ansiose glielo leggi che ha già visto avanti. O indietro.”
Sparecchiò la tavola fumando ancora, nervosamente. “Noi siamo stati fortunati. Ad incontrarci, a riconoscerci. E abbiamo avuto la fortuna di iniziare dal rovescio. Dal peggio che avevamo dentro. Dal buio. Da quel buio che ti prende dentro quando senti che non hai più radici e che non hai più un posto dove andare, né uno dove tornare. Ce lo siamo vomitati addosso quel buio. E ce lo siamo abbracciati. Fino a non sentirci più soli. Te lo ricordi vero?” “Ho freddo stasera amore. O forse è stanchezza. O è quando vedo lei. Che rivedo me, me quando tu non c’eri, quando non ti cercavo, quando non ti aspettavo, quando non ci credevo più.  Si farà del male, ancora. Non è facile trovare un posto dove farsi bene.” “Portami a letto. Andiamo a letto amore e abbracciami, tienimi stretta, tienimi.” “Anzi, anzi ti abbraccio io, ti stringo io, come sempre. Sì, come sempre è meglio.”
Teresa spense le luci e si infilò nel letto. Si rannicchiò in un angolo sotto il piumone a stringersi la pelle sulla carne, la carne sulle ossa, le ossa dentro il cuore. Ed abbracciò il cuscino. Forte.