Le montagne hanno un respiro
lento. Lento e diverso. Deve essere l’incredibile peso del tempo e del mondo.
Lo stare. Si perché le montagne stanno. Non si muovono. E chi non si muove può
solo pensare.
Ho visto la prima volta la
neve a undici anni. Dal finestrino di un treno. Sapevo che da lì a poco avrei
potuto rotolarmici dentro per ore, per giorni, ma quando sei così giovane
nessun sogno, nessun pensiero è bello come la realtà di un incontro e nessun
incontro vale l’attesa. Mio padre dovette abusare di tutta la sua autorità per
impedirmi di scendere dal treno alla prima stazione per toccare la neve. E
subire l’odio rapido eppure profondo di cui solo i bambini sono capaci.
Mi capita oggi di chiedermi
se sono mai stata bambina. Certo che si, che lo sono stata. Lo sono spesso
anche adesso. O forse lo sono sempre. Pure credo che in qualche modo
quell’attesa forzata di qualcosa che entrava, che volevo con tutte le fibre del
mio essere, abbia sostanzialmente prodotto una sorta di irreversibile
disequilibrio nella mia gestione delle emozioni, dei sentimenti e della
ragione, del pensiero. E che da questo derivi in qualche modo il mio stare di
oggi. Immobile. Come una montagna. Mentre l’immane flusso di pensieri e sogni e
desideri viaggia lontano e fuori da me a muovere gli altri, quelli che mi
vivono accanto. Per i quali fermo il treno. Per farli scendere a toccare la
neve che io non riesco più a toccare.
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“Oddio ancora! Che altro
c’è? Possibile che tu non capisca che non posso passare il giorno a telefono?
Ho un milione di cose da fare io!”
Mia
figlia. Mia figlia ha sempre da fare. Non ha mai tempo per niente e per
nessuno. I miei figli hanno sempre da fare. Tutti hanno sempre da fare.
Avevo
giurato a me stessa che diventata vecchia non avrei disturbato nessuno. Che al
primo accenno di bisogno, di dipendenza fisica o mentale, mi sarei rinchiusa
autonomamente in una casa di riposo per anziani dove avrei trovato le risposte
a tutte le mie necessità. La totale, indiscussa e indiscutibile sudditanza che
mio marito aveva per anni subito dai suoi genitori e in particolare da sua
madre, gravando non poco sugli equilibri della sua e della nostra vita
familiare, mi aveva fermamente convinta in questo proposito che avevo
annunciato da subito, appena mio marito morì, non prima, che lui non lo avrebbe
mai accettato, appena passata la soglia dei cinquant’anni, quasi ad affermare
insieme una differenza ed una distanza, che sempre avevo affermato, e a dare
valore ad un’idea, prima che l’età fosse tale da farla credere un delirio o un
vaneggiamento.
Ero diversa da lui. E non
avevo perso occasione di mostrarlo ai miei figli. Non che lui fosse sbagliato e
io giusta. E’ qualcosa che ha a che fare con l’amore io credo. Con il modo di
viverlo. Per lui l’amore si dimostrava con i fatti. E con la responsabilità.
Con l’impegno. Ciò ne ha fatto un figlio devoto e ubbidiente. Un marito
presente e fedele. Un padre… Mi chiedo spesso che immagine ne hanno avuto i
miei figli. E quanto abbia pesato su questa lo stridente contrasto che la mia
immagine invece consegnava loro. Lui era quello che lavorava. Lui era quello
che usciva al mattino, tornava a pranzo a pretendere ordine e silenzio, usciva ancora
per rientrare a tarda sera spesso in tempo solo per distribuire punizioni
piuttosto che baci. Quelle che io non ero capace di dare. Certo c’era. Tutto
sommato anche equo e imparziale. E amorevole. Ma quello che loro vivevano e
provavano era timore. Odio spesso. Anche per me, al posto mio, quando diventati
più grandi diventarono senso le parole, le urla che sovente volavano tra di
noi, che li svegliavano al mattino. Che noi ci amassimo non era abbastanza per
giustificare che lui mi trattasse come una bambina proprio come trattava loro.
Ma probabilmente lo ero e lo sono. Sospesa in un mondo in cui l’amore è dare,
regalare, concedere, proteggere, comprendere. Mia figlia non sa quanto mi
assomiglia.
Nessuno dei miei figli si è
sposato. E’ capitato spesso che io mi sia chiesta perché. Perché nessuno di
loro crede in quest’istituzione, la rifuggono quando non apertamente li
ripugna. In fondo ci hanno visti tenerci per mano. Ci hanno visti uniti.
Nessuna crisi, nessun tradimento, nessun uragano ha attraversato i venticinque
anni del nostro matrimonio. Eppure i loro amici che hanno visto deliri, fughe,
pianti, ritorni, separazioni, battaglie, avvocati, tribunali, si sposano. E le
loro madri si vestono a festa e sono circondate da figli e nipoti adoranti. Le
urla. Le urla per le cose più stupide e più banali. A volte mi dico che son
state quelle. Quelle che mia figlia mi rinfacciava di subire in silenzio ogni
giorno accusandomi di essere più debole di una bambina. Di ubbidire agli
ordini. Così come mio marito ubbidiva a quelli dei suoi. E della società.
Nessuna volontà, nessun desiderio, nessun sogno che non fosse impegno,
convenzione. E il silenzio fuori dalle mura di casa. In realtà per me anche
dentro. Lei invece quando urlava i suoi desideri spalancava le finestre e diceva
io voglio farmi sentire. Io non sono ipocrita. E non mi importa cosa si pensa
fuori da qui, se per gli altri è sbagliato ed è giusto per me.
Dice che non ha tempo. Lei non
ha niente da fare. Niente da fare oltre che pensare. E’ sola. E’ sola perché non
ha voluto smettere di urlare, non ha voluto scendere a patti, non ha mai voluto
piegarsi. Anche nel lavoro. E’ sola ed avrebbe tempo, tutto il tempo del mondo
per ascoltarmi. Per ascoltare le cose inutili che riempiono le mie giornate
vuote che non so con chi dividere. Da quando mio marito è morto mi faccio
sgridare da loro, dai miei figli. Perché spreco oziosamente il mio tempo
davanti alla televisione, perché getto via la mia cultura e la mia voglia di
fare trascinandomi tra le immagini su uno schermo che propone improbabili vite
di improbabili persone. Perché non leggo, non esco, non viaggio, non penso.
Perché non cucino. O se lo faccio sembra quasi stia facendo l’ultima delle
eroiche imprese di un guerriero in fin di vita. Perché non mi vesto, non mi
pettino, non mi trucco. Perché non vado dal medico. Finché non mi ci portano
loro. Come avevo giurato non sarebbe accaduto mai. A loro ci penso. Per loro mi
preoccupo. Ma è vero, dura poco. Il tempo della pubblicità. Poi riprende il
telefilm, la soap opera, la sit-com e i pensieri si fermano. E smettono di fare
male.
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“Oddio
ancora! Che altro c’è? Possibile che tu non capisca che non posso passare il giorno
a telefono? Ho un milione di cose da fare io!”
Ancora mia madre. Un
tormento. A volte mi dispiace trattarla così. Specie perché la trattiamo tutti
così e lo so. Potrei fare come faccio a volte con le persone noiose e
ripetitive, che in salsa diversa ti servono – perché si servono, senza mai
cambiare, senza mai imparare, senza mai riflettere – sempre lo stesso delirio,
sempre lo stesso lamento: potrei, non senza insieme una vena di sadico
compiacimento e un vago senso di colpa da insensibile indifferente, poggiare la
cornetta sul tavolo e lasciarla parlare, magari in viva voce, in modo da
mugugnarle in risposta ogni tanto un si, mmmhhh, ah, beh. Il punto è che lei ha
in più una voce e un tono incalzante. Da insegnante. Che era insegnante. E in
realtà lei non si lamenta, né racconta sempre la stessa storia, anche se a
volte la memoria la inganna e finisce per ripetersi, ma ne racconta cento,
tutte insieme, spesso mischiate, o senza capo né coda, che magari ce l’hanno ma
in conversazioni rimaste soliloqui o fatte con qualcun altro che pure non
ascoltava, e nessuna sua, nessuna che parli di lei o almeno di cose che
contano, di persone che contano. Ok, non è proprio così. A volte in mezzo a
milioni di parole inutili qualcosa che bisognerebbe sapere c’è, che cerca di
dirci, di comunicarci, a volte di chiederci. Pecca di sintesi. E non ha rispetto
del tempo. Forse è questo che ci manda in paranoia. O il fatto che in fondo
sappiamo che è solo un modo per non stare da sola, per non sentirsi sola. E ci
fa male. Molto in fondo. Il punto è che ci fanno male molte cose. Mi fanno male
almeno. Mi fa male che a cinquant’anni mia madre abbia chiuso gli occhi alla
vita insieme a mio padre che dalla vita ha dovuto andarsene. Mi fa male che li
abbia chiusi anche prima, per essere la (sempre imperfetta per lui) brava
moglie e madre di famiglia. Che per farlo abbia lasciato la scuola. Che abbia
ingoiato veleno e parole scambiandole con dedizione ed amore. Mi fa male che
cultura, vivacità, capacità critiche, conoscenza, esperienza, consapevolezza
storica siano finite in una gabbia di moralità borghesi e convenzioni prima e
nelle tele viziose dell’anticultura televisiva poi. Perché mamma non esiste
più. Esiste una sequenza di orari programmati nei quali e per i quali trascina
la vita da una storia ad un’altra. Fuori dal mondo e da lei. Si lamenta che non
la ascoltiamo. Poi quando andiamo da lei non possiamo parlare, che altrimenti
non riesce a seguire i “suoi” programmi. In tv. E mi fa rabbia che so che c’è,
da qualche parte. Quando riesco a costringerla a leggere un libro e le vedo
l’emozione negli occhi. Il fuoco di quello che era. Quando a forza la portano
fuori di casa per un buon film, per uno spettacolo, per una mostra. E per
qualche giorno si ricorda di lei.
Mi fa male che a volte mi
guardo. Mi guardo nel tempo della mia vita che passa. Io ho scelto di non
ubbidire. Io ho scelto di non rinunciare. Eppure tra le mani ho meno di niente.
Ho meno di lei. E tutto il mio cercare, il mio correre, il mio volere, il mio
non fermarmi non mi ha portato in nessun posto. Mi ha portato qui. Dove
immobile lentamente osservo. E regalo, comprendo, proteggo, ascolto.
Mia madre avrebbe voluto
scendere dal treno a toccare la neve con me. Io lo so. Ma ha ubbidito, in
silenzio, e non l’ha fatto. Io ho fatto scendere dal treno mio figlio a farlo. Prima
che lo chiedesse. E abbiamo rischiato di non riuscire a riprenderlo. Io resto
in mezzo. Un urlo, un silenzio, un’attesa, un regalo. Arrivato troppo tardi.
http://www.lavalledeitempli.net/2011/09/24/lattesa-stanca-di-cinzia-craus/
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