sabato 21 gennaio 2012

Vi mancherò

Solo la superbia scambia la sincerità per invidia. E l'accondiscendenza, più spesso estorta che regalata, sia essa frutto dell'affetto o di un banale bisogno di quieto vivere, per sincerità.

“Mi benedica padre perché ho peccato”. Mentre io benedico la grata che fa sì che lui non veda il ghigno di soddisfazione che come ogni volta sento inesorabilmente conquistarmi il volto. Anche stavolta ce l’ho fatta giusto in tempo, pochi attimi prima dell’assolo di Daria, quello che accompagna l’Offertorio.  La conquista dell’inginocchiatoio della salvezza riesce a liberarmi persino dai sensi di colpa. Sensi, plurale. Perché in realtà stento a capire per cosa dovrei esattamente sentirmi in colpa. O per cosa di più. Se perché prendo in giro me stessa e Dio dietro la grata per sottrarmi, almeno in parte, ad un sacrificio che non riesco più a sostenere; se perché mi sento ipocrita a non dirle chiaro quello che penso, che forse, dico forse, se mi ascoltasse mettendo da parte un istante la superbia e la boria di cui non riesce a fare a meno, manco fossero per lei l’aria stessa che la tiene in vita, potrebbe ancora cambiare, vivere meglio, perché sento che non è assecondandola, come fan tutti, come faccio anche io, che le si fa del bene; o se perché sottraendomi mi sento comunque vigliacca, vigliacca nella bontà che mi impone di non ferirla.
Lei è Daria, mia sorella. Canta nel coro della Chiesa. No, scusate. E’ la punta di diamante del coro della Chiesa. Non è che non sia brava. Oddio forse brava è un po’ troppo. E’ intonata, ha una voce gradevole – specie per tempi non troppo lunghi, a piccole dosi -, conosce la musica. Abbastanza. Il problema è che per lei non è così, non è mai stato così. Non le basta, non le basta quel coro, non le bastano i bambini del catechismo che pendono dalle sue labbra obbedienti, non le bastano gli anziani della messa vespertina che vanno finanche a stringerle le mani, non le basta che il povero parroco le abbia concesso di cantare alcuni brani da sola e a modo suo. Lei era fatta per altro. Lei era fatta per le scene, per il mondo, per gli applausi scroscianti. In chiesa non ci sono applausi. Se non per gli sposi e per la bara del morto. Persino quelli li viveva come un furto. E ha scelto di non cantare più alle cerimonie.
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Crede che io non la veda. Che non me sia accorta. Crede che io sia così stupida da non capirlo che lo fa apposta. Si mette in fila per confessarsi sempre allo stesso preciso momento.  Se c’è meno gente lascia passare, con quel suo fare gentile. Lo stesso fare gentile e falso che usa con me. Non vuole sentirmi cantare. Per invidia, invidiosa e livida come tanti. Invidiosa e incapace di ammettere la sua pochezza. Oh la capisco eh! Sia inteso. La capisco più di tutti quegli altri gretti e meschini che vanno via di nascosto, fingono di non vedermi, pur di non sprecare un complimento o, se restano, restano per criticare, sommessamente, velatamente. Tutti grandi sono! Tutti dotati! O tutti critici illustri ed ascoltatori di grande cultura! Gli piaceva la gallina che c’era prima di me a loro, quell’ochetta sommessa nientedispeciale che non li faceva sentire nessuno, che li spronava a cantare con lei. Capisco mia sorella. Poverina! Tutta la vita a misurarsi con me. A me si e a lei no. A me la creatività, l’arte, il dono e a lei quattro marmocchi e un marito che fa l’impiegato. Certo nessuno la invidia. Forse persino questo mi invidia. Ma certo! Mi invidia l’invidia. L’invidia e la grettezza che mi hanno impedito di avere quello che meritavo. Perché è colpa degli altri Di tutti quelli che ho incontrato. Tutti meschini e invidiosi. Vanno avanti solo le mezze cartucce, quelle che non fanno paura. Quelli bravi davvero no, quelli si stroncano, che se no è troppo, troppo il dolore, la sofferenza, la consapevolezza di non valere niente. E io sono brava, come mio marito. Mio marito.
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Suo marito poi. A volte mi chiedo se non è stato il suo matrimonio a peggiorare la situazione. “Il grande, illustre fotografo ritrattista della Milano bene”. L’artista. Che è troppo preso dai suoi impegni “creativi” per venirsela a sorbire lui la moglie e le sue paturnie. Quelle che vengono dopo lo “spettacolo”. “Invidiosi meschini! Poveracci! Ma sai che ogni tanto qualcuno di loro ha la faccia di venirmi a dire che forse dovrei fare quel pezzo così, quell’altro colì, manco fossi capitata su un palco per sbaglio! E manco stessi cantando La Traviata! Se solo sapessero quanto ho studiato, quanto studio, anche per fare questo ridicolo a cui mi sono ridotta e quanto proprio loro, proprio dei vermuncoli come loro, di nessuna cultura e sapere mi hanno fermata. Ciechi! Incapaci di guardare a due metri dal loro naso. Meglio le svampitelle, le band di moda, quelle trendy, che si accaparrano le simpatie concedendo sorrisi e chissà che altro, creandosi un seguito di bestioline come loro, sempre pronte ad ubbidire e a fare a richiesta, senza personalità; meglio quelle così che una che la sa lunga e che non si fa mettere i piedi in testa, troppo difficile da gestire, troppo troppo.” E giù così, fino a sotto casa, rigorosamente a piedi che se no il tragitto per inveire è troppo breve. E poi “Ti è piaciuto vero? Hai sentito il nuovo arrangiamento eh? E’ molto particolare, vero? L’organista non voleva lasciarmelo fare. Eh ma io ho il diritto all’assolo e a decidere come voglio farlo. E’ arrivato un altro artista è arrivato!” E intanto l’artista a casa si riposa le orecchie. A lungo anche. Perché non si farà trovare quando torneremo. Ha sempre, guarda caso, qualche servizio proprio il giorno della messa cantata, anche quando capita in un altro giorno. Che poi non è che cambierebbe molto. Tanto si rintana nel suo studio, si mette le cuffie e sparisce dal mondo. Tranne quando Daria gli serve. Per le sue public relations. O per rammendargli i calzini e cucinargli il pranzo. E lei che lo venera come un prete all’altare. Mah, chissà se avesse incontrato uno diverso! Uno senza le sue stesse ambizioni, senza la sua stessa “vena artistica”, uno che, invece di farla stare chiusa in casa a cantare, coltivando uno stupido sogno che altrettanti stupidi le hanno alimentato da quando era bambina, più per non essere vessati (li capisco, ah se li capisco!) che per ipocrisia o cattiveria, l’avesse portata in giro a divertirsi, a vedere il mondo, a vivere, magari. Magari sarebbe stato diverso. Magari sarebbe stata felice. Magari non ce l’avrebbe con il mondo intero.
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Il mio usignolo. Mi chiamava così mio marito quando mi ha conosciuto. Ad una stupida cerimonia di nozze. Applausi per gli sposi, mai per la cantante. E lui era il fotografo. Niente applausi neanche per lui. Bravo, bravissimo! Oh se capisco anche lui! Che si è rinchiuso nella sua tana lontano dal mondo che non ti riconosce niente. Certo lui almeno. Lui almeno ha me. Che gli organizzo i book, che gli allestisco lo studio a mo’ di show room, perché la gente possa apprezzare le sue qualità. Che perdo tempo per lui. Ecco. Perdo tempo, tempo prezioso. Per lui che in fondo è esattamente come tutti gli altri. Lui a sentirmi non ci viene neanche. Che mi ha sentito tante volte, che mi sente anche a casa. A casa? Ma quando? Chiuso rintanato nel suo buco! Pieno di sé come gli altri. Così pieno di sé da non avere neanche più parole, più consigli da darmi, complimenti da farmi. Trasparente. Ah ma che importa! Al diavolo lui, al diavolo tutti! So io quanto valgo! Peggio per chi non capisce! Gli applausi? Gli applausi sono volgari. Volgari a teatro, volgari agli sposi, volgari ai morti. Sto registrando tutto, tutto. Tutti i grandi, tutti, nessuno escluso, sono stati incompresi. E’ il nostro destino. Ah! Vi spellerete le mani ad applaudirmi un giorno, quando, per mia fortuna, non sarò lì a subire una simile volgarità. Vi mancherò. So che vi mancherò. Piccoli meschini invidiosi.




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