venerdì 13 gennaio 2012

La pelle vuota

Ti hanno portato via. Ti hanno portato via e mi hanno lasciato qui. Da sola.
Hanno detto che ti stavo ammazzando. Tu lo sai che non è così. Lo sai che stavo solo cercando di aiutarti, di liberarti. Tu, eri tu che mi stavi ammazzando. Eri tu che mi stringevi le mani alla gola. Eri tu.
Eri tu?
Per fermarmi?
Shhhh!
Sei tu?
Sei tornato?
Dove sei? Perché ti nascondi?
Chi sei? Che vuoi? Lasciami, lasciami stare! Lasciami!
Eccole, eccole le senti? Le senti le voci? Mi chiamano, mi chiamano, senti?
Lo diceva mia madre, lei le sentiva e io non volevo crederle, non volevo ascoltarle. Ora che lei non c’è più io le sento, le ascolto. Ci odiano. Ci odiano tutti. Vogliono che andiamo via. Via da questo posto, via da questo mondo, dal loro mondo pulito. Siamo sporchi, sporchi, sporchi. Loro, loro sono i signori. Loro che mi hanno usata, loro che hanno respirato i loro aliti immondi sul mio viso di ragazza, e ansimato, grugnito, sbavato, che hanno imputridito la mia pelle con le loro mani cariche di ipocrisie. Se le lavavano qui le loro mani sudice, gli appetiti insoddisfatti del perbenismo, le coscienze gravide di desideri. Qui sul mio ventre, sulle mie gambe bianche, sulle mie braccia livide di buchi, sui miei denti già marci a vent’anni, sulle mie occhiaie su una vita che non passa. Come non è passata a mia madre. Quando mio padre, tuo nonno, se ne andò lasciandoci a crepare da sole. Come tuo padre. Tuo padre che diceva di amarmi e se ne andato come lui. Per la vergogna. Non siamo che immondizia da buttare via. Lo senti? Da qui, da dietro al muro, sotto il letto, nell’armadio. Basta, basta, basta!
Non lo senti, non le senti. Ti hanno portato via. Ma sai, ti seguono, ti troveranno. Loro ci trovano sempre.
Io non volevo ammazzarti. Sei mio figlio. Sei l’unica cosa che ho. Sei mio. Volevo proteggerti. Io volevo solo proteggerti.
Li hanno chiamati. Qualcuno li ha chiamati. Forse sono stati proprio loro, i signori. Hanno detto che ci hanno sentiti, che ti hanno sentito piangere e pregarmi. Ero io che piangevo è vero Alfredo? Io che ti pregavo. Tu, tu mi picchiavi. Tu mi stringevi forte le mani alla gola, tu mi spingevi via. Succedeva ogni giorno succedeva. Quando rientravi e mi trovavi con le mani piene di sangue, le unghie piene di sangue pietre e cemento, i muri graffiati, dai quali cercavo di tirar fuori quelle maledette spie.
Loro ci seguono. Non serve andarsene. Non c’è un posto dove andarsene. Mi hanno sempre ritrovata e troveranno te.
Pazza, pazza, pazza. Mi hanno chiamata pazza. Loro, che ne sanno loro? Tu lo sai, tu lo sai che non sono pazza perché io lo so che le hai sentite. Mentre piangevi e mi aiutavi a tirarle fuori dai muri. E le ha sentite pure lei. Lei, quella a fianco. Quella dalla quale te ne scappavi. Credi che non lo so che andavi lì? E pure lì le sentivi, perché ti seguono, perché sei figlio mio e io figlia di mia madre. Io volevo liberarti. L’ho chiamata ieri. Quando ti hanno portato via e tutto intorno era silenzio. Ha lasciato la porta aperta lo sai? Le porte. La sua e la mia. Aveva paura dici? E di che? Che ha di più di noi? Sai che penso? Lei è proprio come noi. Di là, da sola. Puttana, come me. Sola e puttana. Me lo diceva pure mia madre. E ce le ha anche lei le voci che la inseguono e la cacciano. Perciò ti ha fatto entrare. Perciò è venuta in casa. E’ sporca come noi. E mi ha dato ragione. Mi ha dato ragione lo sai? Le ha sentite le voci. Le ha sentite.
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Sono venuti a prendere Alfredo. Non so chi li ha chiamati ma so che prima o poi avrei finito per farlo io. Mi hanno fatto una montagna di domande. Forse perché nessuno ha dato risposte. Eppure era ora di cena, erano tutti a casa. Non ha aperto nessuno. Speravo che portassero via anche lei io. Che la aiutassero. Ma pare che non funziona così. Funziona che “finché non fa del male a qualcuno”. Pare che far del male a se stessi non vale. Non se ci si fa poco male. Perché Liliana si fa male. L’ho vista io, come la vedeva Alfredo, scavare i muri con le unghie, piegare i tubi, strappare i cavi. Ma si fa poco male. Che è pericoloso neanche conta. Che è pericoloso per tanti anche. L’hanno lasciata qui, da sola. Da sola con tutto il suo mondo da combattere. Da sola con il niente di ogni giorno. Perché Liliana non ha niente. Tranne quel poco che qualcuno, a volte io se posso, cerca di darle; se lo prende, se si fida. Alfredo almeno si fidava. O aveva paura, non lo so bene. So che aveva voglia di silenzio. Di televisione. Di giocattoli. Di luci accese e di cose colorate. Di scarpe senza buchi. Di lasagna. So anche che amava sua madre. E che a un certo punto voleva tornare da lei.
Ieri mi ha chiamato. Lo ha fatto altre volte, mille volte. Non so se lo ricorda. Mi chiama quando Alfredo non c’è, quando è scuola, quando ci va, quando è per strada che non regge a stare a casa. Quando è da me a volte, di nascosto, a giocare con mio figlio. Se siamo soli a volte, se riesco, la faccio entrare. Se siamo soli perché se no non entra e scappa via. Facevo entrare anche sua madre. A mio figlio non piaceva. La nonna, come la chiamavamo tutti. Non la voleva in casa, sul suo divano. Veniva impaurita. Impaurita dalle urla disperate di Liliana e dimentica delle sue che per anni avevano terrorizzato noi. Non voleva mai niente. Solo sedersi, prendere fiato, riposare. Una sola volta, in piena notte, riuscii a farle bere una camomilla, prima di tornare in trincea. La sua battaglia era finita nella battaglia di sua figlia.
Liliana in casa mia cambiava. Si guardava i vestiti lisi e cercava di lisciarli, di sistemarli con le mani sporche. Poi si guardava le mani e girava gli occhi nervosamente altrove. Non si sedeva lei, lei no, restava in piedi, vicino alla porta, il tempo di una, due sigarette, le sue, mai le mie, e si raccoglieva i capelli, chiacchierando piano, a voce bassa, mentre le preparavo un tè che sapevo che non avrebbe preso. Mi ascoltava. Fingeva di ascoltarmi. E fingeva di dimenticare che era venuta per parlarmi delle voci. Ma il più delle volte mi costringeva ad entrare da lei. Mi costringeva è la parola giusta. Perché entrare da lei era un delirio. Le voci. Avevo imparato presto che di là l’ultima cosa al mondo che potevo dirle era che non le sentivo, che non c’erano. Che neanche potevo provare a inventarmi che erano altro, il fruscio del vento, le prese elettriche scoperte, i tubi che perdevano, i neon in fin di vita. Che pure sussurravano. Entrare da lei era entrare nel suo dolore, nella sua mente devastata dalle menzogne, dalle assenze, dalla vergogna, dalla colpa. Le voci? Le sue voci, le sue mille richieste d’aiuto mai ascoltate finivi per sentirle tutte, urlare, urlare in quei muri lacerati e grigi, rossi del sangue delle sue mani, della sua pelle consumata, della sua bellezza sfiorita e violentata, della sua paura e delle notti insonni di memorie senza amore. Finivi per sentirle addosso, frugarti il buio e il tuo silenzio, il tuo dolore, le tue assenze.
Lasciavo le porte aperte quando entravo da lei. Perché una parte di me restasse fuori, a tirarmi fuori di lì. Le ho lasciate aperte anche ieri.
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A volte smettono. A volte smettono e c’è silenzio. Ora che non ci sei ce n’è di più. Forse perché ti hanno già trovato e sono lì da te. Dovrei arrabbiarmi quindi, dannarmi che sei via e non posso più aiutarti e invece mi riposo. Come posso. Piangevi forte quella notte, quando sventrai i materassi per tirarle fuori, ti ricordi? E non volevi dormire a terra, dicevi che era sporco, che era freddo. E invece era più pulito. Più pulito di noi. E’ quasi strano adesso. Questo silenzio lungo interminabile. Che mi restituisce gli occhi per guardarmi il vuoto intorno, il vuoto dentro. Il vuoto sui miei anni che il tempo ha divorato, su questa pelle che era liscia e morbida e oggi è grinze e rughe e cicatrici e graffi. Sui miei capelli d’ebano lucenti ora grigi e stanchi più delle mie ossa.
Shhhh!
Eccole, ritornano, tornano a cacciarmi. Loro, loro sono i signori. Che cacciano e che nascondono quello che sono stati, quello che hanno cercato su quella pelle morbida che non c'è più. Che buttano nell’immondizia la pelle vecchia che non da più gioie, che non ha visto amore. La pelle che si vergogna. La pelle vuota che ha raccolto il vuoto delle loro vite.






http://www.lavalledeitempli.net/2011/12/03/la-pelle-vuota-%E2%80%93-di-cinzia-craus/

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