sabato 11 gennaio 2014

Pelle

Bulimica.
Era la prima definizione che mi era saltata in testa quella sera aprendo l’armadio di mia sorella. Avevo freddo e cercavo qualcosa da mettermi addosso per tornare a casa. Ed ero crollata sul suo letto devastata dall’immagine che mi si era presentata davanti. File ordinate di camicie, T-shirt, maglie, maglioni, gonne, pantaloni, tailleurs, giacche, cappotti… uguali tra loro a tre a tre, a quattro a quattro, nelle possibili declinazioni di colore; spesso, se non quasi sempre, ancora imbustati, con tanto di cartellino, neanche a trovarsi in un grande magazzino.
“La bulimia è un disturbo alimentare” eppure non riuscivo a trovare una parola più adatta per definire quella che necessariamente doveva essere una smania compulsiva irrefrenabile, che spingeva Marcella ad acquistare in serie cose di cui non aveva assolutamente ed evidentemente bisogno. O forse c’entrava il fatto che in altro tempo avevo definito anoressia la mia difficoltà, se non incapacità, a cedere ad “incontri tattili”. Ad accettare che le persone invadessero la mia bolla per toccarmi. Anche solo per una carezza, per un rapido sfiorarsi affettivo.
A volte giustificavo il fatto con una specie di “auto gelosia”. Ovviamente delirante. Altre con psicosi telepatiche, del resto mai comprovate.
Di fatto io ero una che si teneva e teneva le persone a distanza. Quasi che concedere un abbraccio, una carezza, un lembo di pelle significasse intrecciare un legame interiore incontrollabile, laddove quello fatto di parole poteva sempre restare nell’assoluto anonimato della razionalità. E restare libero.
Ecco forse era questo quello che temevo di più. Perdere la libertà. Sapevo in ogni respiro della mia pelle che ogni emozione, ogni sentimento, ogni sussurro della mia anima passavano per i miei sensi. Quelli che erano destinati a restare, a legarmi, a fermarmi.
Ero di quelle che si lasciano trafiggere dalle parole, dal dolore, dalla musica delle espressioni, dei volti, delle memorie. Che invadevano la mia mente. Ma non ero disposta a lasciare che quello stesso mondo di cui la mia mente era avida toccasse anche per caso la mia pelle.
Anoressia dei sensi l’avevo chiamata. Ed ora chiamavo bulimia il disperato bisogno di possedere, di contenere, di mia sorella. Io tendevo a rilasciare, lei a prendere. Rilasciare, regalare ogni parte di me che non fosse carne. Parole, pensieri, esperienze, percorsi. E sorrisi. Marcella invece fagocitava cose, nell’assoluto silenzio. Perché lei non parlava mai. A volte urlava, il più delle volte per cose futili. Ma la sua vita e i suoi pensieri restavano un segreto inaccessibile. Come il suo viso da bambina, che era rimasto lo stesso anche a trenta anni. Una bambina senza lacrime. E senza sorriso.

Mi alzai dal letto come ubriaca. Forse avevo bisogno di esserlo. Quello che sapevo è che dovevo andarmene e subito. Dovevo uscire da quella stanza, da quella che un tempo era stata anche la mia stanza. E dovevo uscire da quella casa. Dovevo uscire da quel palazzo, da quella strada, da quella città. Dovevo trovare aria da respirare.
Mi misi in macchina decisa a violentare la mia stanchezza fino alla sfinimento. “Nessun ragionamento Claudia, nessuna illazione, nessuna analisi” mi ripetevo “per favore, non adesso, non stasera, non stanotte”.
Mi fermai alla prima pompa di benzina. Avessi avuto i soldi avrei fatto il pieno e avrei guidato tutta la notte, magari con la musica a palla, cantando anche, a squarciagola, e poi lo avrei rifatto anche, finendo chissà dove, chissà quando. Per poi girare e tornare indietro. Che tanto prima o poi avrei deciso di tornare. Ma con venti euro in tasca non vai così lontano. E allora presi la strada per il mare. E controvoglia, che andare al mare non mi faceva più bene come un tempo.

Avevo amato e amavo mia sorella più dei miei genitori credo. L’avevo sicuramente desiderata più di loro. E aspettata. E lei mi aveva adorato da subito. Ero io che c’ero sempre. Ero io che dormivo con lei. Io le raccontavo le favole, le cantavo la ninna nanna, le tenevo la mano finché non chiudeva gli occhi. Ma ero anche io quella che poi era cresciuta e l’aveva chiusa fuori da un mondo non da bambina. Ed ero ancora io quella che si era rifiutata di vedere che dietro quegli occhi di bambina cresceva una donna. E avevo lasciato che tra di noi si aprisse un abisso.
Aprii il finestrino. Le immagini continuavano a soffocarmi. Immagini e ricordi.
“Come faccio a darti la mano se dormi lassù?” Marcella. Marcella a sei anni, e i suoi occhioni azzurri di cielo pieni di lacrime calde che le scorrevano sul viso pallido, ancora paffuto e liscio come la seta. Il giorno che mio padre aveva deciso che ero troppo grande per dormire ancora con i miei fratelli e che io e Marcella avremmo avuto una stanza tutta nostra, troppo piccola però per due letti. Così aveva portato a casa un letto a castello. “Ci terremo legate con un filo, non piangere”. E le avevo asciugato le lacrime che lei continuava a leccarsi. Le avevo pulito il naso. E le avevo legato un filo al polso legando l’altro capo al mio. Poi l’avevo ingannata. A dodici anni non dormi con un filo attaccato al polso che tutto il mondo ti sembra già una catena. Lo avevo attaccato al letto. Che lei tirando credesse che c’ero io dall’altra parte. Ma che io fossi libera.
Poi erano venuti i ragazzi. Le amiche. Le feste. Ed erano finite le favole, le ninna nanne, il tempo, soprattutto quello.
Ogni tanto le regalavo disegni.
Non sapevo come dirle le cose. Le mie cose erano troppo diverse dalle sue. Lei era una bambina. La ascoltavo distratta. O non la ascoltavo affatto, mentre anche lei cresceva, e cambiava, e parlava sempre di meno. E non piangeva più, non rideva più.
Soprattutto si nascondeva.
Nascondeva le sue cose.
Una volta aprii un suo cassetto per cercare una penna. Era pieno zeppo di penne. Di pastelli, matite, pennarelli, nuovi, usati, rotti, finiti. C’erano anche quelli che non trovavo più, quelli che avevo buttato, quelli che avevo perso. E c’erano i miei disegni e i suoi, quelli che mi portava a vedere e quelli che aveva fatto di nascosto. Anche quelli che aveva ricalcato dai miei perché lei non sapeva disegnare. Quell’anno mio fratello era stato rimandato in disegno ed ero stata io a dargli lezioni. Quando lui diceva io non sarò mai capace di disegnare gli avevo spiegato che non esistono persone che non sanno disegnare, ma solo persone che non vogliono imparare a guardare. A Marcella questo non avevo saputo dirlo. Quando veniva a chiedermi mi spieghi come si disegna un cane le toglievo il foglio e lo facevo per lei. Così aveva smesso di chiedere.
Più avanti quel cassetto si era riempito di bigliettini colorati.
Le amiche. I ragazzi. Le feste.
Ne avevo pescato uno un giorno che mi aveva stupito per la creatività, quella creatività con la quale da un po’ avevo cominciato a pagarmi quello che mio padre riteneva superfluo e che quindi dovevo guadagnarmi da me. Era un invito ad un ragazzo con tanto di punto interrogativo. E c’erano le due caselle, del si e del no, per la risposta. Il si era una casella enorme che prendeva quasi tutto il foglio. Il no era quasi illeggibile. Ci avevo riso di gusto, anzi ero stata addirittura un po’ invidiosa. Che non avessi mai avuto un’idea del genere. E che siccome era sua non potevo più usarla. Me l’aveva presa. Ma neanche per un attimo avevo pensato che quel biglietto potesse dire che ora potevamo tornare a parlare. Forse addirittura la stessa lingua.

Avevo gli occhi pieni di lacrime e i capelli anche, perché il vento me le staccava dal viso prima che potessi provare ad assaggiarle, a leccarle, come faceva lei da bambina, come sicuramente avevo fatto io prima di lei. E pensavo a me adesso, e a Luca.
Pensavo alla voglia che avevo avuto di abbracciarlo forte stasera, mentre parlava, mentre i suoi occhi mi chiedevano di farlo.
Pensavo alle volte che da lui mi ero lasciata abbracciare, anche quando non c’era.
Di più quando non c’era.
Invece stasera mi ero difesa.
Non avevo difeso la sua paura o la sua volontà di difendersi. Avevo difeso me, me e l’amore che avevo dentro che negava a lui più che a chiunque altro di riprendersi spazio dentro di me. A lui che la mia maledetta bolla l’aveva rotta a pugni e calci e che ci era entrato per forza per restarci per sempre.
Pensavo che a casa, in famiglia, nessuno di noi si abbracciava mai. Mai baci, mai carezze. Tra noi fratelli, con i miei. Da piccoli forse. Da piccoli era difficile evitare che mia madre, mio padre ci abbracciassero, ci baciassero. Magari ci provavano. Poi con il tempo avevano smesso. Marcella ed io ci abbracciavamo, ci baciavamo. Non cercavamo di evitarlo. Poi con il tempo avevamo smesso. Anche noi.
Pensavo che adesso avevo voglia di abbracci, o di baci. O di mani. O di sesso. Di qualunque cosa fosse pelle, subito.
Girai la macchina.
Il bar di Enzo era ancora aperto.
Se fossi entrata in lacrime mi avrebbe abbracciato.
Baciato no, non sarebbe mai entrato così a fondo. Mi conosceva bene. Ma mi avrebbe abbracciato. E a me non sarebbe bastato.
Così mi asciugai il viso. Presi dalla borsa quel po’ di trucco di emergenza che portavo con me e mi inventai una maschera accettabile.
Non mi avrebbe abbracciato così. Neanche. Ma mi avrebbe dato qualcosa da bere.
Quando uscii di lì era tardi. Ed ero brilla. Abbastanza da accettare mani a frugarmi la pelle. Abbastanza da accettare che attraverso la pelle non passasse amore. Abbastanza da tradirmi ancora. Chiamai Piero. “Ho voglia, adesso”.

http://www.lavalledeitempli.net/2011/07/30/pelle-di-cinzia-craus/