sabato 11 gennaio 2014

Pelle

Bulimica.
Era la prima definizione che mi era saltata in testa quella sera aprendo l’armadio di mia sorella. Avevo freddo e cercavo qualcosa da mettermi addosso per tornare a casa. Ed ero crollata sul suo letto devastata dall’immagine che mi si era presentata davanti. File ordinate di camicie, T-shirt, maglie, maglioni, gonne, pantaloni, tailleurs, giacche, cappotti… uguali tra loro a tre a tre, a quattro a quattro, nelle possibili declinazioni di colore; spesso, se non quasi sempre, ancora imbustati, con tanto di cartellino, neanche a trovarsi in un grande magazzino.
“La bulimia è un disturbo alimentare” eppure non riuscivo a trovare una parola più adatta per definire quella che necessariamente doveva essere una smania compulsiva irrefrenabile, che spingeva Marcella ad acquistare in serie cose di cui non aveva assolutamente ed evidentemente bisogno. O forse c’entrava il fatto che in altro tempo avevo definito anoressia la mia difficoltà, se non incapacità, a cedere ad “incontri tattili”. Ad accettare che le persone invadessero la mia bolla per toccarmi. Anche solo per una carezza, per un rapido sfiorarsi affettivo.
A volte giustificavo il fatto con una specie di “auto gelosia”. Ovviamente delirante. Altre con psicosi telepatiche, del resto mai comprovate.
Di fatto io ero una che si teneva e teneva le persone a distanza. Quasi che concedere un abbraccio, una carezza, un lembo di pelle significasse intrecciare un legame interiore incontrollabile, laddove quello fatto di parole poteva sempre restare nell’assoluto anonimato della razionalità. E restare libero.
Ecco forse era questo quello che temevo di più. Perdere la libertà. Sapevo in ogni respiro della mia pelle che ogni emozione, ogni sentimento, ogni sussurro della mia anima passavano per i miei sensi. Quelli che erano destinati a restare, a legarmi, a fermarmi.
Ero di quelle che si lasciano trafiggere dalle parole, dal dolore, dalla musica delle espressioni, dei volti, delle memorie. Che invadevano la mia mente. Ma non ero disposta a lasciare che quello stesso mondo di cui la mia mente era avida toccasse anche per caso la mia pelle.
Anoressia dei sensi l’avevo chiamata. Ed ora chiamavo bulimia il disperato bisogno di possedere, di contenere, di mia sorella. Io tendevo a rilasciare, lei a prendere. Rilasciare, regalare ogni parte di me che non fosse carne. Parole, pensieri, esperienze, percorsi. E sorrisi. Marcella invece fagocitava cose, nell’assoluto silenzio. Perché lei non parlava mai. A volte urlava, il più delle volte per cose futili. Ma la sua vita e i suoi pensieri restavano un segreto inaccessibile. Come il suo viso da bambina, che era rimasto lo stesso anche a trenta anni. Una bambina senza lacrime. E senza sorriso.

Mi alzai dal letto come ubriaca. Forse avevo bisogno di esserlo. Quello che sapevo è che dovevo andarmene e subito. Dovevo uscire da quella stanza, da quella che un tempo era stata anche la mia stanza. E dovevo uscire da quella casa. Dovevo uscire da quel palazzo, da quella strada, da quella città. Dovevo trovare aria da respirare.
Mi misi in macchina decisa a violentare la mia stanchezza fino alla sfinimento. “Nessun ragionamento Claudia, nessuna illazione, nessuna analisi” mi ripetevo “per favore, non adesso, non stasera, non stanotte”.
Mi fermai alla prima pompa di benzina. Avessi avuto i soldi avrei fatto il pieno e avrei guidato tutta la notte, magari con la musica a palla, cantando anche, a squarciagola, e poi lo avrei rifatto anche, finendo chissà dove, chissà quando. Per poi girare e tornare indietro. Che tanto prima o poi avrei deciso di tornare. Ma con venti euro in tasca non vai così lontano. E allora presi la strada per il mare. E controvoglia, che andare al mare non mi faceva più bene come un tempo.

Avevo amato e amavo mia sorella più dei miei genitori credo. L’avevo sicuramente desiderata più di loro. E aspettata. E lei mi aveva adorato da subito. Ero io che c’ero sempre. Ero io che dormivo con lei. Io le raccontavo le favole, le cantavo la ninna nanna, le tenevo la mano finché non chiudeva gli occhi. Ma ero anche io quella che poi era cresciuta e l’aveva chiusa fuori da un mondo non da bambina. Ed ero ancora io quella che si era rifiutata di vedere che dietro quegli occhi di bambina cresceva una donna. E avevo lasciato che tra di noi si aprisse un abisso.
Aprii il finestrino. Le immagini continuavano a soffocarmi. Immagini e ricordi.
“Come faccio a darti la mano se dormi lassù?” Marcella. Marcella a sei anni, e i suoi occhioni azzurri di cielo pieni di lacrime calde che le scorrevano sul viso pallido, ancora paffuto e liscio come la seta. Il giorno che mio padre aveva deciso che ero troppo grande per dormire ancora con i miei fratelli e che io e Marcella avremmo avuto una stanza tutta nostra, troppo piccola però per due letti. Così aveva portato a casa un letto a castello. “Ci terremo legate con un filo, non piangere”. E le avevo asciugato le lacrime che lei continuava a leccarsi. Le avevo pulito il naso. E le avevo legato un filo al polso legando l’altro capo al mio. Poi l’avevo ingannata. A dodici anni non dormi con un filo attaccato al polso che tutto il mondo ti sembra già una catena. Lo avevo attaccato al letto. Che lei tirando credesse che c’ero io dall’altra parte. Ma che io fossi libera.
Poi erano venuti i ragazzi. Le amiche. Le feste. Ed erano finite le favole, le ninna nanne, il tempo, soprattutto quello.
Ogni tanto le regalavo disegni.
Non sapevo come dirle le cose. Le mie cose erano troppo diverse dalle sue. Lei era una bambina. La ascoltavo distratta. O non la ascoltavo affatto, mentre anche lei cresceva, e cambiava, e parlava sempre di meno. E non piangeva più, non rideva più.
Soprattutto si nascondeva.
Nascondeva le sue cose.
Una volta aprii un suo cassetto per cercare una penna. Era pieno zeppo di penne. Di pastelli, matite, pennarelli, nuovi, usati, rotti, finiti. C’erano anche quelli che non trovavo più, quelli che avevo buttato, quelli che avevo perso. E c’erano i miei disegni e i suoi, quelli che mi portava a vedere e quelli che aveva fatto di nascosto. Anche quelli che aveva ricalcato dai miei perché lei non sapeva disegnare. Quell’anno mio fratello era stato rimandato in disegno ed ero stata io a dargli lezioni. Quando lui diceva io non sarò mai capace di disegnare gli avevo spiegato che non esistono persone che non sanno disegnare, ma solo persone che non vogliono imparare a guardare. A Marcella questo non avevo saputo dirlo. Quando veniva a chiedermi mi spieghi come si disegna un cane le toglievo il foglio e lo facevo per lei. Così aveva smesso di chiedere.
Più avanti quel cassetto si era riempito di bigliettini colorati.
Le amiche. I ragazzi. Le feste.
Ne avevo pescato uno un giorno che mi aveva stupito per la creatività, quella creatività con la quale da un po’ avevo cominciato a pagarmi quello che mio padre riteneva superfluo e che quindi dovevo guadagnarmi da me. Era un invito ad un ragazzo con tanto di punto interrogativo. E c’erano le due caselle, del si e del no, per la risposta. Il si era una casella enorme che prendeva quasi tutto il foglio. Il no era quasi illeggibile. Ci avevo riso di gusto, anzi ero stata addirittura un po’ invidiosa. Che non avessi mai avuto un’idea del genere. E che siccome era sua non potevo più usarla. Me l’aveva presa. Ma neanche per un attimo avevo pensato che quel biglietto potesse dire che ora potevamo tornare a parlare. Forse addirittura la stessa lingua.

Avevo gli occhi pieni di lacrime e i capelli anche, perché il vento me le staccava dal viso prima che potessi provare ad assaggiarle, a leccarle, come faceva lei da bambina, come sicuramente avevo fatto io prima di lei. E pensavo a me adesso, e a Luca.
Pensavo alla voglia che avevo avuto di abbracciarlo forte stasera, mentre parlava, mentre i suoi occhi mi chiedevano di farlo.
Pensavo alle volte che da lui mi ero lasciata abbracciare, anche quando non c’era.
Di più quando non c’era.
Invece stasera mi ero difesa.
Non avevo difeso la sua paura o la sua volontà di difendersi. Avevo difeso me, me e l’amore che avevo dentro che negava a lui più che a chiunque altro di riprendersi spazio dentro di me. A lui che la mia maledetta bolla l’aveva rotta a pugni e calci e che ci era entrato per forza per restarci per sempre.
Pensavo che a casa, in famiglia, nessuno di noi si abbracciava mai. Mai baci, mai carezze. Tra noi fratelli, con i miei. Da piccoli forse. Da piccoli era difficile evitare che mia madre, mio padre ci abbracciassero, ci baciassero. Magari ci provavano. Poi con il tempo avevano smesso. Marcella ed io ci abbracciavamo, ci baciavamo. Non cercavamo di evitarlo. Poi con il tempo avevamo smesso. Anche noi.
Pensavo che adesso avevo voglia di abbracci, o di baci. O di mani. O di sesso. Di qualunque cosa fosse pelle, subito.
Girai la macchina.
Il bar di Enzo era ancora aperto.
Se fossi entrata in lacrime mi avrebbe abbracciato.
Baciato no, non sarebbe mai entrato così a fondo. Mi conosceva bene. Ma mi avrebbe abbracciato. E a me non sarebbe bastato.
Così mi asciugai il viso. Presi dalla borsa quel po’ di trucco di emergenza che portavo con me e mi inventai una maschera accettabile.
Non mi avrebbe abbracciato così. Neanche. Ma mi avrebbe dato qualcosa da bere.
Quando uscii di lì era tardi. Ed ero brilla. Abbastanza da accettare mani a frugarmi la pelle. Abbastanza da accettare che attraverso la pelle non passasse amore. Abbastanza da tradirmi ancora. Chiamai Piero. “Ho voglia, adesso”.

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giovedì 16 febbraio 2012

L'attesa stanca


Le montagne hanno un respiro lento. Lento e diverso. Deve essere l’incredibile peso del tempo e del mondo. Lo stare. Si perché le montagne stanno. Non si muovono. E chi non si muove può solo pensare.
Ho visto la prima volta la neve a undici anni. Dal finestrino di un treno. Sapevo che da lì a poco avrei potuto rotolarmici dentro per ore, per giorni, ma quando sei così giovane nessun sogno, nessun pensiero è bello come la realtà di un incontro e nessun incontro vale l’attesa. Mio padre dovette abusare di tutta la sua autorità per impedirmi di scendere dal treno alla prima stazione per toccare la neve. E subire l’odio rapido eppure profondo di cui solo i bambini sono capaci.
Mi capita oggi di chiedermi se sono mai stata bambina. Certo che si, che lo sono stata. Lo sono spesso anche adesso. O forse lo sono sempre. Pure credo che in qualche modo quell’attesa forzata di qualcosa che entrava, che volevo con tutte le fibre del mio essere, abbia sostanzialmente prodotto una sorta di irreversibile disequilibrio nella mia gestione delle emozioni, dei sentimenti e della ragione, del pensiero. E che da questo derivi in qualche modo il mio stare di oggi. Immobile. Come una montagna. Mentre l’immane flusso di pensieri e sogni e desideri viaggia lontano e fuori da me a muovere gli altri, quelli che mi vivono accanto. Per i quali fermo il treno. Per farli scendere a toccare la neve che io non riesco più a toccare.
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“Oddio ancora! Che altro c’è? Possibile che tu non capisca che non posso passare il giorno a telefono? Ho un milione di cose da fare io!”
Mia figlia. Mia figlia ha sempre da fare. Non ha mai tempo per niente e per nessuno. I miei figli hanno sempre da fare. Tutti hanno sempre da fare.
Avevo giurato a me stessa che diventata vecchia non avrei disturbato nessuno. Che al primo accenno di bisogno, di dipendenza fisica o mentale, mi sarei rinchiusa autonomamente in una casa di riposo per anziani dove avrei trovato le risposte a tutte le mie necessità. La totale, indiscussa e indiscutibile sudditanza che mio marito aveva per anni subito dai suoi genitori e in particolare da sua madre, gravando non poco sugli equilibri della sua e della nostra vita familiare, mi aveva fermamente convinta in questo proposito che avevo annunciato da subito, appena mio marito morì, non prima, che lui non lo avrebbe mai accettato, appena passata la soglia dei cinquant’anni, quasi ad affermare insieme una differenza ed una distanza, che sempre avevo affermato, e a dare valore ad un’idea, prima che l’età fosse tale da farla credere un delirio o un vaneggiamento.
Ero diversa da lui. E non avevo perso occasione di mostrarlo ai miei figli. Non che lui fosse sbagliato e io giusta. E’ qualcosa che ha a che fare con l’amore io credo. Con il modo di viverlo. Per lui l’amore si dimostrava con i fatti. E con la responsabilità. Con l’impegno. Ciò ne ha fatto un figlio devoto e ubbidiente. Un marito presente e fedele. Un padre… Mi chiedo spesso che immagine ne hanno avuto i miei figli. E quanto abbia pesato su questa lo stridente contrasto che la mia immagine invece consegnava loro. Lui era quello che lavorava. Lui era quello che usciva al mattino, tornava a pranzo a pretendere ordine e silenzio, usciva ancora per rientrare a tarda sera spesso in tempo solo per distribuire punizioni piuttosto che baci. Quelle che io non ero capace di dare. Certo c’era. Tutto sommato anche equo e imparziale. E amorevole. Ma quello che loro vivevano e provavano era timore. Odio spesso. Anche per me, al posto mio, quando diventati più grandi diventarono senso le parole, le urla che sovente volavano tra di noi, che li svegliavano al mattino. Che noi ci amassimo non era abbastanza per giustificare che lui mi trattasse come una bambina proprio come trattava loro. Ma probabilmente lo ero e lo sono. Sospesa in un mondo in cui l’amore è dare, regalare, concedere, proteggere, comprendere. Mia figlia non sa quanto mi assomiglia.
Nessuno dei miei figli si è sposato. E’ capitato spesso che io mi sia chiesta perché. Perché nessuno di loro crede in quest’istituzione, la rifuggono quando non apertamente li ripugna. In fondo ci hanno visti tenerci per mano. Ci hanno visti uniti. Nessuna crisi, nessun tradimento, nessun uragano ha attraversato i venticinque anni del nostro matrimonio. Eppure i loro amici che hanno visto deliri, fughe, pianti, ritorni, separazioni, battaglie, avvocati, tribunali, si sposano. E le loro madri si vestono a festa e sono circondate da figli e nipoti adoranti. Le urla. Le urla per le cose più stupide e più banali. A volte mi dico che son state quelle. Quelle che mia figlia mi rinfacciava di subire in silenzio ogni giorno accusandomi di essere più debole di una bambina. Di ubbidire agli ordini. Così come mio marito ubbidiva a quelli dei suoi. E della società. Nessuna volontà, nessun desiderio, nessun sogno che non fosse impegno, convenzione. E il silenzio fuori dalle mura di casa. In realtà per me anche dentro. Lei invece quando urlava i suoi desideri spalancava le finestre e diceva io voglio farmi sentire. Io non sono ipocrita. E non mi importa cosa si pensa fuori da qui, se per gli altri è sbagliato ed è giusto per me.
Dice che non ha tempo. Lei non ha niente da fare. Niente da fare oltre che pensare. E’ sola. E’ sola perché non ha voluto smettere di urlare, non ha voluto scendere a patti, non ha mai voluto piegarsi. Anche nel lavoro. E’ sola ed avrebbe tempo, tutto il tempo del mondo per ascoltarmi. Per ascoltare le cose inutili che riempiono le mie giornate vuote che non so con chi dividere. Da quando mio marito è morto mi faccio sgridare da loro, dai miei figli. Perché spreco oziosamente il mio tempo davanti alla televisione, perché getto via la mia cultura e la mia voglia di fare trascinandomi tra le immagini su uno schermo che propone improbabili vite di improbabili persone. Perché non leggo, non esco, non viaggio, non penso. Perché non cucino. O se lo faccio sembra quasi stia facendo l’ultima delle eroiche imprese di un guerriero in fin di vita. Perché non mi vesto, non mi pettino, non mi trucco. Perché non vado dal medico. Finché non mi ci portano loro. Come avevo giurato non sarebbe accaduto mai. A loro ci penso. Per loro mi preoccupo. Ma è vero, dura poco. Il tempo della pubblicità. Poi riprende il telefilm, la soap opera, la sit-com e i pensieri si fermano. E smettono di fare male.
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“Oddio ancora! Che altro c’è? Possibile che tu non capisca che non posso passare il giorno a telefono? Ho un milione di cose da fare io!”
Ancora mia madre. Un tormento. A volte mi dispiace trattarla così. Specie perché la trattiamo tutti così e lo so. Potrei fare come faccio a volte con le persone noiose e ripetitive, che in salsa diversa ti servono – perché si servono, senza mai cambiare, senza mai imparare, senza mai riflettere – sempre lo stesso delirio, sempre lo stesso lamento: potrei, non senza insieme una vena di sadico compiacimento e un vago senso di colpa da insensibile indifferente, poggiare la cornetta sul tavolo e lasciarla parlare, magari in viva voce, in modo da mugugnarle in risposta ogni tanto un si, mmmhhh, ah, beh. Il punto è che lei ha in più una voce e un tono incalzante. Da insegnante. Che era insegnante. E in realtà lei non si lamenta, né racconta sempre la stessa storia, anche se a volte la memoria la inganna e finisce per ripetersi, ma ne racconta cento, tutte insieme, spesso mischiate, o senza capo né coda, che magari ce l’hanno ma in conversazioni rimaste soliloqui o fatte con qualcun altro che pure non ascoltava, e nessuna sua, nessuna che parli di lei o almeno di cose che contano, di persone che contano. Ok, non è proprio così. A volte in mezzo a milioni di parole inutili qualcosa che bisognerebbe sapere c’è, che cerca di dirci, di comunicarci, a volte di chiederci. Pecca di sintesi. E non ha rispetto del tempo. Forse è questo che ci manda in paranoia. O il fatto che in fondo sappiamo che è solo un modo per non stare da sola, per non sentirsi sola. E ci fa male. Molto in fondo. Il punto è che ci fanno male molte cose. Mi fanno male almeno. Mi fa male che a cinquant’anni mia madre abbia chiuso gli occhi alla vita insieme a mio padre che dalla vita ha dovuto andarsene. Mi fa male che li abbia chiusi anche prima, per essere la (sempre imperfetta per lui) brava moglie e madre di famiglia. Che per farlo abbia lasciato la scuola. Che abbia ingoiato veleno e parole scambiandole con dedizione ed amore. Mi fa male che cultura, vivacità, capacità critiche, conoscenza, esperienza, consapevolezza storica siano finite in una gabbia di moralità borghesi e convenzioni prima e nelle tele viziose dell’anticultura televisiva poi. Perché mamma non esiste più. Esiste una sequenza di orari programmati nei quali e per i quali trascina la vita da una storia ad un’altra. Fuori dal mondo e da lei. Si lamenta che non la ascoltiamo. Poi quando andiamo da lei non possiamo parlare, che altrimenti non riesce a seguire i “suoi” programmi. In tv. E mi fa rabbia che so che c’è, da qualche parte. Quando riesco a costringerla a leggere un libro e le vedo l’emozione negli occhi. Il fuoco di quello che era. Quando a forza la portano fuori di casa per un buon film, per uno spettacolo, per una mostra. E per qualche giorno si ricorda di lei.
Mi fa male che a volte mi guardo. Mi guardo nel tempo della mia vita che passa. Io ho scelto di non ubbidire. Io ho scelto di non rinunciare. Eppure tra le mani ho meno di niente. Ho meno di lei. E tutto il mio cercare, il mio correre, il mio volere, il mio non fermarmi non mi ha portato in nessun posto. Mi ha portato qui. Dove immobile lentamente osservo. E regalo, comprendo, proteggo, ascolto.
Mia madre avrebbe voluto scendere dal treno a toccare la neve con me. Io lo so. Ma ha ubbidito, in silenzio, e non l’ha fatto. Io ho fatto scendere dal treno mio figlio a farlo. Prima che lo chiedesse. E abbiamo rischiato di non riuscire a riprenderlo. Io resto in mezzo. Un urlo, un silenzio, un’attesa, un regalo. Arrivato troppo tardi.


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Abbracciami


“Sono preoccupata per Bea.” Non aveva ancora detto nulla Teresa, da quando era rientrata, più tardi del solito, e in fretta e furia si era messa ai fornelli perché la cena non subisse ritardi. Non aveva parlato neanche mentre apparecchiava la tavola, con cura, come sempre, come piaceva a lui, con i piatti buoni, i bicchieri di cristallo, le posate schierate secondo galateo. Per una cena cena. Come piaceva a lui che poi se invece si sceglieva di mangiare “strano”, come piaceva a lei, era però il primo a divertirsi a mangiare con le mani, o con le bacchette, o con quei lunghi stuzzicadenti con i quali lei serviva certi bizzarri contorni africani. Magari a terra, sdraiati sui cuscini. O acciambellati intorno a quel tavolino basso che lei aveva voluto apposta per le sue “variazioni” esotiche. Non mangiava volentieri Teresa. O meglio, si stancava. Si annoiava. Come di tutto ciò che era ripetitivo. Ancor più se riteneva che fosse qualcosa che in qualche modo doveva procurare piacere. Pure la sua ricerca di variazione non era mai affannosa, mai affettata; era anzi gioiosa. Una piccola sfida costante che le accendeva la voglia di esistere. Per scoprire ancora.
Adesso, a tavola, finalmente rilassata, le prese il bisogno di condividere quella sensazione di angoscia che le aveva messo addosso il suo incontro con Bea, la sua amica di sempre. D’altra parte era normale. Condividere. Teresa gli raccontava tutto, da sempre. E lui amava stare lì ad ascoltarla, l’avrebbe ascoltata per ore. Si incantava ad ascoltarla. I loro pensieri si incontravano sempre, anche quando magari partivano da punti lontani, finivano sempre per arrivare in un posto dal quale riuscivano a ripartire insieme. “E’ di nuovo in una storia. Alla quale lei stessa, come sempre, non concede un futuro.”
Bea e Teresa si conoscevano da tanto tempo. Una di quelle amicizie basate su un’affinità profonda dell’animo. Potevano non sentirsi, non vedersi per mesi, ma c’era sempre come un filo a tenerle unite. E per quanto negli anni le loro vite si fossero divise, trasformate, quel comune sentirsi, dentro, era rimasto immutato. Si riconoscevano.
“Io la capisco. Tutto quello che ha vissuto, che ha visto. Le ipocrisie. Le ipocrisie più basse e insensate, in nome di valori che non si sentono ma si decide di difendere. E peggio. L’incapacità a riconoscersi ipocriti. Il dito puntato contro gli altri, la lingua come una lama tagliente e impietosa, lo sguardo fiero di chi è senza peccato. Teso a guardar fuori, a giudicare gli altri e mai sé stessi. Spesso delle stesse identiche colpe.” “Vuoi dell’altro arrosto, amore?” “Senza contare quello che lei è. Come è fatta. La sua libertà, l’apertura mentale, l’insaziabile curiosità che le rende impossibile riconoscersi, o imporsi, dei limiti o dei pregiudizi. La versatilità con cui riesce a viversi e spendersi in pianeti talvolta diametralmente opposti, perfettamente a suo agio dovunque. Beh, sì, dovunque tranne dove si mente per vivere. Cioè un po’ dovunque. Dovunque almeno in quel mondo di cui poi in fondo è fatta, perché in quel mondo ci è nata e cresciuta, a cui ha dato battaglia ma che l’ha comunque formata, riempita. Ti ricordi quando diceva è colpa dei libri? Colpa di tutto questo maledetto sapere, e la filosofia e la psicologia e l’osservazione e la profondità? Sì che te lo ricordi. Te lo ricordi perché lo dicevo sempre anche io. Ne parlavo spesso anche io e te. I ribelli passano la vita a tagliarsi radici che inevitabilmente ricrescono. Che li rendono diversi per tutti. Da tutti. Da quelli che rifuggono e da quelli in cui non riescono a ritrovarsi. Se non in misura parziale.”
“Ho preso delle paste di mandorla, ne vuoi?” Teresa liberò la tavola da tutto ciò che non occorreva più, con cura raccolse le briciole e tornò con un grazioso vassoio con su piccole delizie sobriamente decorate, due piccoli calici e una bottiglia di passito di Pantelleria.  Sceglieva lei il vino, da sempre. Anche se una volta su questo avevano discusso. Ma alla fine l’aveva spuntata, dopo tutto era lei che cucinava e faceva la spesa. Aprì il vino e riempì lentamente i calici. “E’ la sua “pienezza”. Finisce sempre per diventare troppo, per fare paura. Anche a lei stessa. Che non ammette di dover rinunciare a parte di sé per compiacenza. Pur ammettendo che trovare qualcuno con cui potersi vivere appieno su tutto, su troppo, è quasi impossibile. Ormai lo ammette d’anticipo.”  Bevve il vino d’un fiato.
Lui rideva quando lei beveva così. Mandando al diavolo le etichette insieme al pregio di quello che aveva accuratamente selezionato. Rideva perché sapeva che dietro quel gesto c’era insieme la voglia di mandar giù qualcosa che la feriva e il desiderio di riafferrarsi prima di farsi male. Con l’allegria e la leggerezza. O con l’abbandono. D’altra parte era così che si erano conosciuti. Con troppe cose da buttare giù. Con il mondo da buttare giù. Con le radici a crescere e loro a tagliarle, con le paure a dirsi a raccontarsi e le parole a piovere a dirotto, a difendersi dalle paure. A cercarsi per riconoscersi, per accettarsi, per perdonarsi. Teresa riempì ancora il bicchiere e si accese una sigaretta.
“Sta bene sai. Se la guardi ti sembra la Bea di venti anni fa. Che fa la tosta ma la vedi che non ci riesce.” Bevve ancora. Un brivido le percorse la schiena. “Ma dietro gli occhi e nelle mani ansiose glielo leggi che ha già visto avanti. O indietro.”
Sparecchiò la tavola fumando ancora, nervosamente. “Noi siamo stati fortunati. Ad incontrarci, a riconoscerci. E abbiamo avuto la fortuna di iniziare dal rovescio. Dal peggio che avevamo dentro. Dal buio. Da quel buio che ti prende dentro quando senti che non hai più radici e che non hai più un posto dove andare, né uno dove tornare. Ce lo siamo vomitati addosso quel buio. E ce lo siamo abbracciati. Fino a non sentirci più soli. Te lo ricordi vero?” “Ho freddo stasera amore. O forse è stanchezza. O è quando vedo lei. Che rivedo me, me quando tu non c’eri, quando non ti cercavo, quando non ti aspettavo, quando non ci credevo più.  Si farà del male, ancora. Non è facile trovare un posto dove farsi bene.” “Portami a letto. Andiamo a letto amore e abbracciami, tienimi stretta, tienimi.” “Anzi, anzi ti abbraccio io, ti stringo io, come sempre. Sì, come sempre è meglio.”
Teresa spense le luci e si infilò nel letto. Si rannicchiò in un angolo sotto il piumone a stringersi la pelle sulla carne, la carne sulle ossa, le ossa dentro il cuore. Ed abbracciò il cuscino. Forte.



sabato 28 gennaio 2012

Punto

Sono passati quattro anni. Ma potrebbero esserne passati dieci o cento o nessuno. Il tempo ha poco senso ormai.
Se mia madre mi sentisse pronunciare questa frase potrebbe supporre che i danni che ho subito prima che si facesse luce su quello che mi stava accadendo non siano poi così poco significativi. O che sto male di nuovo. O che stavolta sono impazzita davvero. E non solo lei credo. Credo lo penserebbero in tanti. Quelli che hanno lavorato con me, che hanno studiato con me, che hanno diviso con me tanti momenti della mia vita di prima. Io correvo sempre. Non avevo mai tempo perché lo usavo tutto. Ritenevo e predicavo che sprecare il tempo fosse il più infimo dei reati.
Anche oggi lo faccio. Intendo lo uso. Forse più di prima. Nel senso che me lo prendo tutto. Anche quello che non c’è. Solo che oggi è il mio tempo. Il tempo del mondo è un binario che incontro, sul quale talvolta, inevitabilmente mi muovo. A quale talvolta non senza rabbia soccombo. Come soccombo al tempo che talvolta il mio corpo fisico mi chiede, mi impone. Ed è strano. E’ strano perché è proprio al mio corpo, alla mia “fisicità” che sento di regalare tutto il tempo che rubo.
“Dobbiamo trattenerla”.
“Dovete trattenermi? Sono due ore che aspetto su questa barella che qualcuno venga per farmi firmare il solito foglio, senza contare le ore di attesa al Pronto Soccorso, e adesso lei si presenta qui a dirmi che dovete trattenermi? Sto bene, la vostra magica miscela ha fatto effetto, finalmente il dolore è passato e io ho tre giorni di inferno da recuperare”.
Erano due anni che andava avanti così. Ero stremata ma abituata. Stremata dalla frequenza devastante degli attacchi ma rassegnata a conviverci. Ed abituata. Abituata al percorso. Tre giorni ogni quindici di emicrania lancinante con crisi di vomito senza soluzione di continuità. Tre giorni di passione senza cibo, senza sonno, senza tregua. Nei quali sperimentavano su un cadavere incapace di urlare tutti i tipi di farmaci concessi. In tutte le forme. Finché quel cadavere non riusciva a lacrimare e a biascicare qualcosa che più o meno voleva dire ospedale. Lì, salvo le immancabili code, e il tempo per gli accertamenti di rito, con una santa flebo di diosacosa, in meno di un’ora mi rimettevano in piedi. Beh in piedi è una parola grossa. In piedi mi ci mettevo io di forza per recuperare il tempo perduto. Anche barcollando. Che cosa c’era stavolta di diverso? Stavo già maledicendo l’insana idea che mi era venuta quella notte di farmi portare al Pronto Soccorso più vicino, dove non mi conoscevano ancora.
“Vede signora abbiamo necessità di fare ulteriori controlli. Non è necessario che lei si preoccupi oltre il dovuto, ma se mi concede un attimo le spiego come stanno le cose”.
Aveva l’aria insolitamente buona e si muoveva e parlava senza la fretta tipica cui mi ero assuefatta nel tempo, smettendo anche di chiedere spiegazioni. Pensai che era stanco. O che stava dormendo e lo avevano svegliato e magari visto che gli avevano e gli avevo disturbato il sonno, a lui, al primario di neurochirurgia che chissà per quale maledizione, o benedizione, quella notte scontava un turno, tanto valeva che si desse da fare. Magari punendomi. Spinse lentamente la barella sotto un  neon perché anche io potessi vedere l’immagine. Tirò fuori una lastra da una grossa busta sgualcita e si aggiustò gli occhiali sul naso. “Vede questo piccolo punto nero qui, nella sua testa? Ce ne sono almeno altri tre, più piccoli; so che è difficile leggere questa robaccia, ma se si impegna riesce a distinguerli”. Lo guardavo inebetita. O forse erano i farmaci. Che accidente mi voleva dire? Avevo fatto almeno cinquanta tac negli ultimi due anni e ora lui se ne usciva con un puntino! “Lei ha avuto un TIA. Almeno uno, adesso”. “Un piccolo infarto al cervello” spiegò per mia madre, che alla parola infarto stava per averlo lei e per spiegarle poi quello che voleva dire poco ci mancò che non ne avessi un altro. Di TIA intendo. Attacco ischemico temporaneo. Un piccolo black out delle funzioni cerebrali. Non tutte credo, per fortuna. “Vado a casa lo stesso. Farò tutto quello che mi indicherà di fare e tutti gli accertamenti necessari, ma non qui e non ora. Adesso ho da fare.”
Ovviamente li feci. Gli accertamenti. Ovviamente costretta. Anche se, ammetto, un po’ di strizza mi era venuta. E insieme alla strizza ci guadagnai la rabbia. Perché è un tipo di cose per le quali non c’è spiegazione. Non in un soggetto giovane e sano. Questo dicevano concordemente radiologi e neurochirurghi. Che in più escludevano un nesso tra i TIA e le emicranie, tra i TIA e certi ammanchi di memoria che io lamentavo, tra i TIA e qualunque cosa potessi cercare di ricordare per aiutarli ad aiutarmi. Un puntino. Un puntino.
Una sera a cena con amici uno di loro che sapeva la storia mi prese in giro su questa cosa del punto, non ricordo neanche come. Qualcosa a proposito della mia abitudine di chiudere un’asserzione di cui sono convinta aggiungendo punto. Tra loro c’era un cardiologo. Due giorni dopo mi chiamò a casa. “Domani mattina vieni in ospedale da me. So che cosa hai.”
Ero stanca. Stanca di fare indagini, stanca di entrare e uscire da ambulatori, cliniche, ospedali. Ma Lucio fu irremovibile e perentorio. “Lo vedi questo puntino?” Dio! Ancora un puntino? Lucio stava esaminando il mio cuore. E io stavo pensando che probabilmente tutti come me hanno un odioso puntino nero ondeggiante sulla retina e che volevano per forza sgravarsene attribuendolo a me. Al mio cervello prima e al mio cuore adesso. “Compensa” disse. Compensare significa produrre all’interno una pressione che bilanci le variazioni di pressione esterne. Lo si fa per “sturarsi” le orecchie quando si passa rapidamente da una quota altimetrica ad un’altra. Lo si fa quando si va sott’acqua. E io che facevo immersioni da anni lo sapevo fin troppo bene. Attraverso il buchino passò un lampo veloce di luce blu. “E’ sangue venoso. C’è un buchino nel tuo cuore che lo lascia andare al cervello. Insieme ai residui che trasporta. E i vasi sottili di quelle aree si intasano, provocando piccoli infarti. Devo operarti”. Devo che? No, ovviamente non ci sono parole. “E’ un’operazione di routine, che facciamo sui bambini, una sciocchezza, niente di cui preoccuparsi”. No, niente di cui preoccuparsi. Tanto è il mio cuore. Tanto è lui che batte ossessivamente da quando sono nata portando avanti nel tempo del mondo questa robetta che è il mio corpo e la mia testa e i miei pensieri e i miei sogni e le mie emozioni e la mia vita. Tanto siete voi che vi infilerete lì dentro e che ci metterete le mani. Non io. Che non saprei come fare ma che accidenti è il mio cuore maledizione starei ben attenta! Certo devo saperlo che lo tratterete con cura ma… insomma quanti metaforicamente mi avranno messo le mani sul cuore? Quanti metaforicamente me lo hanno sbranato, schiacciato, infilzato, cucito, rattoppato, accarezzato? E se è una cosa da niente perché siete tutti qui, amici, parenti, mamma che piange, Lucio che sorride, fuori questa sala operatoria che chi diavolo mi ci ha portato?
Un ombrellino al titanio ha cancellato il puntino. Quello nel cuore. Per quelli nel cervello non c’è molto da fare, resteranno lì.
Sono un’ipocondriaca. Forse dipende dal fatto che ho sempre sentito, da bambina, che non sarei rimasta molto su questo mondo. Forse anche per questo ho sempre rincorso affannosamente il tempo. Ogni volta che dovevo per qualche motivo sottopormi ad un piccolo intervento o più banalmente fare un viaggio in aereo, che poi sono razionalmente consapevole che è statisticamente il mezzo più sicuro, facevo, no faccio, testamento, morale che altro non ho, per coloro che amo. Questa volta non ci ero riuscita. Non ne avevo avuto la forza. Quando mi sono svegliata davanti agli occhi ho visto tutte le volte che per un puntino avrei potuto non svegliarmi più. Per scendere in fondo al mare. Per caricarmi sulle spalle il televisore o la libreria da montare. Per far giocare i bambini a vola vola vola. E ho visto qualcos’altro. Ho visto il tempo. Ho visto tutto il tempo che non stavo vivendo da tanto, tantissimo tempo. Ho visto le corse e gli affanni; le rincorse. E ho visto occhi chiusi e mani chiuse e silenzio. E io non ero da nessuna parte. Il necessario. Il dovere. Le responsabilità. C’era tutto. Io non c’ero più.
Quando sei impegnato a vivere si dimenticano un sacco di cose. Soprattutto si dimentica di mettere dei punti. Si intrecciano fili, linee, percorsi e ci si dimentica perché. Ogni tanto mi scoprivo a contare. Contavo le cose. Le cose che facevo, i passi che facevo, persino i piatti che lavavo. E qualcosa nella mia testa voleva anche che fossero sempre pari. Fatte un numero pari di volte. Anche le cose irripetibili. Una specie di continuum forzato, credo. Ancora mi capita di contare le cose. Ma ci rido. Come rido quando sento parlare dell’importanza di vivere l’attimo, di non sprecarlo, di non perderlo. Nel mio tempo di oggi ogni attimo è infinito. E c’è un sacco di tempo per fermarsi e mettere punti. I punti sono importanti.

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sabato 21 gennaio 2012

Vi mancherò

Solo la superbia scambia la sincerità per invidia. E l'accondiscendenza, più spesso estorta che regalata, sia essa frutto dell'affetto o di un banale bisogno di quieto vivere, per sincerità.

“Mi benedica padre perché ho peccato”. Mentre io benedico la grata che fa sì che lui non veda il ghigno di soddisfazione che come ogni volta sento inesorabilmente conquistarmi il volto. Anche stavolta ce l’ho fatta giusto in tempo, pochi attimi prima dell’assolo di Daria, quello che accompagna l’Offertorio.  La conquista dell’inginocchiatoio della salvezza riesce a liberarmi persino dai sensi di colpa. Sensi, plurale. Perché in realtà stento a capire per cosa dovrei esattamente sentirmi in colpa. O per cosa di più. Se perché prendo in giro me stessa e Dio dietro la grata per sottrarmi, almeno in parte, ad un sacrificio che non riesco più a sostenere; se perché mi sento ipocrita a non dirle chiaro quello che penso, che forse, dico forse, se mi ascoltasse mettendo da parte un istante la superbia e la boria di cui non riesce a fare a meno, manco fossero per lei l’aria stessa che la tiene in vita, potrebbe ancora cambiare, vivere meglio, perché sento che non è assecondandola, come fan tutti, come faccio anche io, che le si fa del bene; o se perché sottraendomi mi sento comunque vigliacca, vigliacca nella bontà che mi impone di non ferirla.
Lei è Daria, mia sorella. Canta nel coro della Chiesa. No, scusate. E’ la punta di diamante del coro della Chiesa. Non è che non sia brava. Oddio forse brava è un po’ troppo. E’ intonata, ha una voce gradevole – specie per tempi non troppo lunghi, a piccole dosi -, conosce la musica. Abbastanza. Il problema è che per lei non è così, non è mai stato così. Non le basta, non le basta quel coro, non le bastano i bambini del catechismo che pendono dalle sue labbra obbedienti, non le bastano gli anziani della messa vespertina che vanno finanche a stringerle le mani, non le basta che il povero parroco le abbia concesso di cantare alcuni brani da sola e a modo suo. Lei era fatta per altro. Lei era fatta per le scene, per il mondo, per gli applausi scroscianti. In chiesa non ci sono applausi. Se non per gli sposi e per la bara del morto. Persino quelli li viveva come un furto. E ha scelto di non cantare più alle cerimonie.
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Crede che io non la veda. Che non me sia accorta. Crede che io sia così stupida da non capirlo che lo fa apposta. Si mette in fila per confessarsi sempre allo stesso preciso momento.  Se c’è meno gente lascia passare, con quel suo fare gentile. Lo stesso fare gentile e falso che usa con me. Non vuole sentirmi cantare. Per invidia, invidiosa e livida come tanti. Invidiosa e incapace di ammettere la sua pochezza. Oh la capisco eh! Sia inteso. La capisco più di tutti quegli altri gretti e meschini che vanno via di nascosto, fingono di non vedermi, pur di non sprecare un complimento o, se restano, restano per criticare, sommessamente, velatamente. Tutti grandi sono! Tutti dotati! O tutti critici illustri ed ascoltatori di grande cultura! Gli piaceva la gallina che c’era prima di me a loro, quell’ochetta sommessa nientedispeciale che non li faceva sentire nessuno, che li spronava a cantare con lei. Capisco mia sorella. Poverina! Tutta la vita a misurarsi con me. A me si e a lei no. A me la creatività, l’arte, il dono e a lei quattro marmocchi e un marito che fa l’impiegato. Certo nessuno la invidia. Forse persino questo mi invidia. Ma certo! Mi invidia l’invidia. L’invidia e la grettezza che mi hanno impedito di avere quello che meritavo. Perché è colpa degli altri Di tutti quelli che ho incontrato. Tutti meschini e invidiosi. Vanno avanti solo le mezze cartucce, quelle che non fanno paura. Quelli bravi davvero no, quelli si stroncano, che se no è troppo, troppo il dolore, la sofferenza, la consapevolezza di non valere niente. E io sono brava, come mio marito. Mio marito.
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Suo marito poi. A volte mi chiedo se non è stato il suo matrimonio a peggiorare la situazione. “Il grande, illustre fotografo ritrattista della Milano bene”. L’artista. Che è troppo preso dai suoi impegni “creativi” per venirsela a sorbire lui la moglie e le sue paturnie. Quelle che vengono dopo lo “spettacolo”. “Invidiosi meschini! Poveracci! Ma sai che ogni tanto qualcuno di loro ha la faccia di venirmi a dire che forse dovrei fare quel pezzo così, quell’altro colì, manco fossi capitata su un palco per sbaglio! E manco stessi cantando La Traviata! Se solo sapessero quanto ho studiato, quanto studio, anche per fare questo ridicolo a cui mi sono ridotta e quanto proprio loro, proprio dei vermuncoli come loro, di nessuna cultura e sapere mi hanno fermata. Ciechi! Incapaci di guardare a due metri dal loro naso. Meglio le svampitelle, le band di moda, quelle trendy, che si accaparrano le simpatie concedendo sorrisi e chissà che altro, creandosi un seguito di bestioline come loro, sempre pronte ad ubbidire e a fare a richiesta, senza personalità; meglio quelle così che una che la sa lunga e che non si fa mettere i piedi in testa, troppo difficile da gestire, troppo troppo.” E giù così, fino a sotto casa, rigorosamente a piedi che se no il tragitto per inveire è troppo breve. E poi “Ti è piaciuto vero? Hai sentito il nuovo arrangiamento eh? E’ molto particolare, vero? L’organista non voleva lasciarmelo fare. Eh ma io ho il diritto all’assolo e a decidere come voglio farlo. E’ arrivato un altro artista è arrivato!” E intanto l’artista a casa si riposa le orecchie. A lungo anche. Perché non si farà trovare quando torneremo. Ha sempre, guarda caso, qualche servizio proprio il giorno della messa cantata, anche quando capita in un altro giorno. Che poi non è che cambierebbe molto. Tanto si rintana nel suo studio, si mette le cuffie e sparisce dal mondo. Tranne quando Daria gli serve. Per le sue public relations. O per rammendargli i calzini e cucinargli il pranzo. E lei che lo venera come un prete all’altare. Mah, chissà se avesse incontrato uno diverso! Uno senza le sue stesse ambizioni, senza la sua stessa “vena artistica”, uno che, invece di farla stare chiusa in casa a cantare, coltivando uno stupido sogno che altrettanti stupidi le hanno alimentato da quando era bambina, più per non essere vessati (li capisco, ah se li capisco!) che per ipocrisia o cattiveria, l’avesse portata in giro a divertirsi, a vedere il mondo, a vivere, magari. Magari sarebbe stato diverso. Magari sarebbe stata felice. Magari non ce l’avrebbe con il mondo intero.
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Il mio usignolo. Mi chiamava così mio marito quando mi ha conosciuto. Ad una stupida cerimonia di nozze. Applausi per gli sposi, mai per la cantante. E lui era il fotografo. Niente applausi neanche per lui. Bravo, bravissimo! Oh se capisco anche lui! Che si è rinchiuso nella sua tana lontano dal mondo che non ti riconosce niente. Certo lui almeno. Lui almeno ha me. Che gli organizzo i book, che gli allestisco lo studio a mo’ di show room, perché la gente possa apprezzare le sue qualità. Che perdo tempo per lui. Ecco. Perdo tempo, tempo prezioso. Per lui che in fondo è esattamente come tutti gli altri. Lui a sentirmi non ci viene neanche. Che mi ha sentito tante volte, che mi sente anche a casa. A casa? Ma quando? Chiuso rintanato nel suo buco! Pieno di sé come gli altri. Così pieno di sé da non avere neanche più parole, più consigli da darmi, complimenti da farmi. Trasparente. Ah ma che importa! Al diavolo lui, al diavolo tutti! So io quanto valgo! Peggio per chi non capisce! Gli applausi? Gli applausi sono volgari. Volgari a teatro, volgari agli sposi, volgari ai morti. Sto registrando tutto, tutto. Tutti i grandi, tutti, nessuno escluso, sono stati incompresi. E’ il nostro destino. Ah! Vi spellerete le mani ad applaudirmi un giorno, quando, per mia fortuna, non sarò lì a subire una simile volgarità. Vi mancherò. So che vi mancherò. Piccoli meschini invidiosi.




venerdì 13 gennaio 2012

Senza meta

Sei stata brava. Hai messo tutto a posto, hai rifatto i letti, hai tolto gli ultimi piatti dal lavabo e messo avanti la lavastoviglie. Hai tolto i panni dal balcone e, con la sollecitudine distratta delle azioni mille volte ripetute, li hai ripiegati e rimessi ordinatamente al loro posto. Ieri hai pulito tutta la casa. Certo forse avresti potuto impegnarti di più, ma l’effetto d’insieme non è per niente male. E hai perfino innaffiato le piante. Nessuno troverà da ridire domani, indipendentemente da chi sarà a mettere i piedi in casa, da chi verrà a cercarti, da chi ti troverà. Nessuno potrà dire che eri una disordinata, o una buona a nulla. E forse è meglio che non ti ci sei messa troppo di impegno, così non penseranno neanche che eri una maniaca depressa. Anche se tu sai bene quante manie hai. Quante ne hai avute. E sai anche che non combatterle è stato il miglior modo per sconfiggerle e sconfiggere ciò che le provocava. Hai sempre assecondato i percorsi delle tua mente e in fondo anche quello cui ti stai preparando non è che un modo per andarle incontro.
Hai preparato tutto con cura. Questa volta con minuziosa dedizione. Hai studiato a lungo. Cause, conseguenze, pro, contro, indicazioni, controindicazioni, interazioni, effetti collaterali. Certo, non penso solo ai foglietti illustrativi dei farmaci che in più di un mese sei riuscita in mille modi a farti prescrivere. Anche a quelli. Ma intendevo tutto: hai sistematicamente analizzato tutto. Lucidamente. Riuscendo persino ad accantonare il dolore. Non ti concederai di sbagliare stavolta.
La vasca nel bagno  è quasi piena e la temperatura è perfetta. Più calda del dovuto, perché non sia fredda quando sarai pronta. Non ci entrerai subito infatti, ma soltanto quando sentirai che è il momento, quando sentirai che le forze cominciano a venir meno. Ti rilasserà e il calore libererà endorfine, che impediranno al tuo istinto di cercare di reagire, di proteggerti. Perché è lui che ti preoccupa di più, da sempre. Così hai anche comprato e preparato incensi e oli alla lavanda, e messo su un vecchio cd di musica new age, senza strumenti, senza voci da ripetere, solo i rumori e i suoni della natura. Ammesso che lo sentirai.
Hai staccato il telefono e spento il cellulare. Sei ancora al computer però, a dispensare sorrisi, parole, riflessioni. Fa parte di te, non farlo potrebbe non essere normale. Eppoi ne hai voglia, quindi perché non farlo?
Ogni tanto ti fermi, guardi l’ora. Non che tu abbia scelto o designato un’ora precisa, ma non vuoi che succeda all’alba. Troppe volte i colori e i suoni dell’alba ti hanno richiamato ad una realtà che non ti appartiene, a bisogni fisici che non ti corrispondono.
Hai ancora tante cose da fare: anche tu devi prepararti perché vuoi essere impeccabile. Poi ci sono i tempi del rito, e non sono brevi. Sai che stasera non devi farti troppo coinvolgere. Così finalmente ti alzi, vai nella tua stanza e tiri fuori da un cassetto quello slip carino che ti ha portato tua sorella dall’Inghilterra. Hai scelto quello perché secondo te fa glamour. Sia a colori che in bianco e nero. Non sai infatti che foto faranno. E l’idea di essere completamente nuda non ti piaceva.
Un’altra occhiata al computer. Ora ti trasferisci nel bagno. Vuoi depilarti, farti le unghie, sistemare le tue impossibili sopracciglia; i capelli no, non importa, tanto nella vasca si bagneranno, e a te stanno bene bagnati. Poi sono puliti, li hai lavati stamattina, pettinandoli e acconciandoli con una profusione di impegno che non hai avuto mai. Mentre ti depili ti guardi quei piccoli tagli sulle gambe. Sono praticamente poco più che dei graffi. In fondo è stato un bene aspettare. Già, come se fossi stata tu a scegliere di aspettare. Ok scusa, scusami. Si era detto che non avrei detto niente che potesse ricondurti a quello che… a te, semplicemente, scusa. Non guardarmi così. Sei stata tu a pensarci. Ci hai pensato attraverso quei segni, te l’ho letto negli occhi. Hai pensato ai lividi. Hai pensato a lui. Hai pensato alla sua rabbia. E ti sei ricordata anche il resto. Non provare a negarlo. Io non dirò altro, va avanti.
Non ti ho deconcentrata. In meno di un secondo hai spazzato via quell’ombra che ti avevo letto negli occhi e hai ripreso diligentemente il tuo percorso, la tua routine di bellezza per le grandi occasioni, quelle in cui vuoi essere perfetta. E alla fine non ci hai messo tanto. Chissà perché te lo ripeti ogni volta stupita eppure capita sempre.
Rimetti tutto in ordine e richiudi la porta. L’acqua nella vasca non deve raffreddarsi.
Ora sei di nuovo al computer. Hai un impercettibile moto di stizza. Il tuo rito prevede che  la tua danza cominci bevendo. Perché questo in qualche modo sei sicura che aiuterà. E hai ovviamente preparato anche questo nel modo migliore. Hai comprato dei lime perché almeno un paio di caipirinhas ti spettano: sono l’ideale per iniziare e il tempo richiesto per prepararle è un valido modo per tenere lontano pensieri e distrazioni. Poi verrà qualcosa di più forte, in salita, ma hai deciso di non scegliere in anticipo perché il gusto non va mai programmato. Così hai schierato sul tavolo tutto quello che più ti piace. E hai comprato due pacchetti di cigas in più, per esser certa che non finiscano prima del tempo, perché non sai bere senza fumare. Ma quello che ora provoca il tuo disappunto è che tu non sai bere da sola senza scrivere. E nei giorni passati hai scritto tutto quello che dovevi scrivere. A tutti. A lui, alla tua famiglia, a chi ti ha amato e ti ama ancora, agli amici più cari, a… scusa, no, non volevo ricominciare, credimi, sei tu che hai aperto quella cartella per vedere se avevi dimenticato qualcosa, se potevi trovare qualcosa da scrivere ancora, sei tu che non ci hai pensato nonostante sapessi che quella cartella non andava riaperta. Chiudila, puoi scrivere qualcosa di nuovo, una storia fantastica, quella poesia in francese che non hai più scritto… oppure puoi leggere qualcosa, magari in rete, senza cercare tra quello che hai, senza ripercorrere nel computer nomi, immagini, ricordi. Vuoi?
Devo ammettere che ti sei davvero preparata a dovere. Anche questa volta il mio intervento ti ha appena sfiorato. Un’amica ha appena pubblicato nel suo blog un racconto abbastanza lungo. E hai deciso che per iniziare può andar bene. Hai anche aperto un documento nuovo. Così quando finirai di leggere potrai buttar giù quello che ti pare, magari bevendo un’idea ti viene.
Prendi il ghiaccio dal freezer, il secchio con il pestello, lo zucchero di canna e cominci a tagliare i lime a pezzetti dopo averli lavati e asciugati. Fai tutto molto lentamente, con gesti calmi e misurati. Non hai fretta e non ce ne è adesso e sei sicura che fatta così la tua caipirinha sarà migliore di tutte quelle che hai bevuto e che hai fatto di corsa dietro il bancone di un bar. Stanchezza zero. Mentre versi la cachaça ci pensi e ti scappa un sorriso. Non volevi le occhiaie e tra ieri e oggi hai dormito come non mai. Ma siccome stasera farai tardi e farai tardi bevendo alla fine le occhiaie ti si vedranno lo stesso e certo non ha senso truccarsi per immergersi nella vasca. Non importa. E’ ora di leggere. E di bere.
Sono le tre. Hai letto almeno tre storie. Ne hai iniziata a scrivere una. Carina, non hai mai scritto cose così, senza un percorso, senza un tema. Parole che si inseguono e che diventano una musica, sembra che ballino. Ecco ballare. E’ una idea che ti piace subito. Ha bevuto le tue caipirinhas e hai dato fondo alla bottiglia di rum ma sei ancora troppo sveglia. E’ tardi per accendere lo stereo di casa, così indossi le cuffie, accendi la tv e ti scegli un canale di rap. Balli. E bevi ancora. E finalmente la testa comincia a girarti.
Ricominci a scrivere. Hai deciso che finirai la tua storia. Hai deciso come finirla e infatti si scrive da sola in pochi minuti.
Chiudi il file. Chiudi il tuo account. Anzi no, lo riapri. La pubblichi, domani qualcuno la leggerà. Adesso puoi chiudere tutto. Spegni il computer e lo porti in camera. Sul comodino. Dove è stato in questi ultimi… quanti mesi? Non ti rispondi. Lentamente ti spogli. Indossi gli slip che avevi preparato e l’accappatoio, fresco di bucato. Prendi il libro che stavi leggendo. Restano da leggere una ventina di pagine. Le hai lasciate di proposito. E’ di facile lettura e anche se hai bevuto tanto non farai fatica a comprendere. E sei sicura che avrai il tempo di finirlo prima che sia il momento di accucciarti nella vasca.
Torni in cucina. Abbassi le luci. Abbastanza da non sentire il fastidio che cominci ad avvertire agli occhi. Controlli se riesci a leggere. Guardi l’ora. Adesso non hai più tanto tempo. Non c’è fretta ma non puoi più sprecarne. Apri la dispensa e tiri fuori una busta. Metti in fila sul tavolo quei quattro astucci. Sai che probabilmente ne basterebbe uno, ma hai deciso che per una volta nella tua vita vuoi solo certezze. Tiri fuori i blister. E poi quelle pillole colorate. Anche queste le disponi in fila, una ad una, a disegnare qualcosa, un disegno che hai in mente e non hai mai messo su carta. E ti piace. E’ come se lo avessi sempre cercato e sempre saputo. E’ ora di incontrarti. Finalmente.
            ………………………………………………….
Stanotte, o dovrei dire stamattina, sono rimasta ad osservarti mentre dormivi. Temevo avessi freddo con addosso solo quei buffi slip. Hai dimenticato di chiudere la finestra e sei crollata prima di infilare una T-shirt, sopra la coperta. Quando ti sveglierai ce l’avrai a morte con me. E non avrò parole per calmarti e braccia per abbracciarti. Ti ho fermata. Questa volta sono stata io. Perché tu hai finto di dimenticare e lo hai fatto meglio di tutte le volte che lo ho fatto io. Ma tu sei anche quella che mi ha ricordato. Tutto. E io non ho dimenticato. Non ho dimenticato cosa ti ha fermato e non ho dimenticato cosa dopo ti ha portato avanti. E non ho dimenticato il dolore cui non sai rinunciare. Tutto ciò che ti resta di quello che ami. E di quello che sei. Mentre ci penso mi rendo conto di quanto stiamo diventando simili, di quanto si stiano riducendo le distanze. Questo mi spaventa. In parte. In parte mi piace. Dovremmo abituarci. A camminare insieme.




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La pelle vuota

Ti hanno portato via. Ti hanno portato via e mi hanno lasciato qui. Da sola.
Hanno detto che ti stavo ammazzando. Tu lo sai che non è così. Lo sai che stavo solo cercando di aiutarti, di liberarti. Tu, eri tu che mi stavi ammazzando. Eri tu che mi stringevi le mani alla gola. Eri tu.
Eri tu?
Per fermarmi?
Shhhh!
Sei tu?
Sei tornato?
Dove sei? Perché ti nascondi?
Chi sei? Che vuoi? Lasciami, lasciami stare! Lasciami!
Eccole, eccole le senti? Le senti le voci? Mi chiamano, mi chiamano, senti?
Lo diceva mia madre, lei le sentiva e io non volevo crederle, non volevo ascoltarle. Ora che lei non c’è più io le sento, le ascolto. Ci odiano. Ci odiano tutti. Vogliono che andiamo via. Via da questo posto, via da questo mondo, dal loro mondo pulito. Siamo sporchi, sporchi, sporchi. Loro, loro sono i signori. Loro che mi hanno usata, loro che hanno respirato i loro aliti immondi sul mio viso di ragazza, e ansimato, grugnito, sbavato, che hanno imputridito la mia pelle con le loro mani cariche di ipocrisie. Se le lavavano qui le loro mani sudice, gli appetiti insoddisfatti del perbenismo, le coscienze gravide di desideri. Qui sul mio ventre, sulle mie gambe bianche, sulle mie braccia livide di buchi, sui miei denti già marci a vent’anni, sulle mie occhiaie su una vita che non passa. Come non è passata a mia madre. Quando mio padre, tuo nonno, se ne andò lasciandoci a crepare da sole. Come tuo padre. Tuo padre che diceva di amarmi e se ne andato come lui. Per la vergogna. Non siamo che immondizia da buttare via. Lo senti? Da qui, da dietro al muro, sotto il letto, nell’armadio. Basta, basta, basta!
Non lo senti, non le senti. Ti hanno portato via. Ma sai, ti seguono, ti troveranno. Loro ci trovano sempre.
Io non volevo ammazzarti. Sei mio figlio. Sei l’unica cosa che ho. Sei mio. Volevo proteggerti. Io volevo solo proteggerti.
Li hanno chiamati. Qualcuno li ha chiamati. Forse sono stati proprio loro, i signori. Hanno detto che ci hanno sentiti, che ti hanno sentito piangere e pregarmi. Ero io che piangevo è vero Alfredo? Io che ti pregavo. Tu, tu mi picchiavi. Tu mi stringevi forte le mani alla gola, tu mi spingevi via. Succedeva ogni giorno succedeva. Quando rientravi e mi trovavi con le mani piene di sangue, le unghie piene di sangue pietre e cemento, i muri graffiati, dai quali cercavo di tirar fuori quelle maledette spie.
Loro ci seguono. Non serve andarsene. Non c’è un posto dove andarsene. Mi hanno sempre ritrovata e troveranno te.
Pazza, pazza, pazza. Mi hanno chiamata pazza. Loro, che ne sanno loro? Tu lo sai, tu lo sai che non sono pazza perché io lo so che le hai sentite. Mentre piangevi e mi aiutavi a tirarle fuori dai muri. E le ha sentite pure lei. Lei, quella a fianco. Quella dalla quale te ne scappavi. Credi che non lo so che andavi lì? E pure lì le sentivi, perché ti seguono, perché sei figlio mio e io figlia di mia madre. Io volevo liberarti. L’ho chiamata ieri. Quando ti hanno portato via e tutto intorno era silenzio. Ha lasciato la porta aperta lo sai? Le porte. La sua e la mia. Aveva paura dici? E di che? Che ha di più di noi? Sai che penso? Lei è proprio come noi. Di là, da sola. Puttana, come me. Sola e puttana. Me lo diceva pure mia madre. E ce le ha anche lei le voci che la inseguono e la cacciano. Perciò ti ha fatto entrare. Perciò è venuta in casa. E’ sporca come noi. E mi ha dato ragione. Mi ha dato ragione lo sai? Le ha sentite le voci. Le ha sentite.
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Sono venuti a prendere Alfredo. Non so chi li ha chiamati ma so che prima o poi avrei finito per farlo io. Mi hanno fatto una montagna di domande. Forse perché nessuno ha dato risposte. Eppure era ora di cena, erano tutti a casa. Non ha aperto nessuno. Speravo che portassero via anche lei io. Che la aiutassero. Ma pare che non funziona così. Funziona che “finché non fa del male a qualcuno”. Pare che far del male a se stessi non vale. Non se ci si fa poco male. Perché Liliana si fa male. L’ho vista io, come la vedeva Alfredo, scavare i muri con le unghie, piegare i tubi, strappare i cavi. Ma si fa poco male. Che è pericoloso neanche conta. Che è pericoloso per tanti anche. L’hanno lasciata qui, da sola. Da sola con tutto il suo mondo da combattere. Da sola con il niente di ogni giorno. Perché Liliana non ha niente. Tranne quel poco che qualcuno, a volte io se posso, cerca di darle; se lo prende, se si fida. Alfredo almeno si fidava. O aveva paura, non lo so bene. So che aveva voglia di silenzio. Di televisione. Di giocattoli. Di luci accese e di cose colorate. Di scarpe senza buchi. Di lasagna. So anche che amava sua madre. E che a un certo punto voleva tornare da lei.
Ieri mi ha chiamato. Lo ha fatto altre volte, mille volte. Non so se lo ricorda. Mi chiama quando Alfredo non c’è, quando è scuola, quando ci va, quando è per strada che non regge a stare a casa. Quando è da me a volte, di nascosto, a giocare con mio figlio. Se siamo soli a volte, se riesco, la faccio entrare. Se siamo soli perché se no non entra e scappa via. Facevo entrare anche sua madre. A mio figlio non piaceva. La nonna, come la chiamavamo tutti. Non la voleva in casa, sul suo divano. Veniva impaurita. Impaurita dalle urla disperate di Liliana e dimentica delle sue che per anni avevano terrorizzato noi. Non voleva mai niente. Solo sedersi, prendere fiato, riposare. Una sola volta, in piena notte, riuscii a farle bere una camomilla, prima di tornare in trincea. La sua battaglia era finita nella battaglia di sua figlia.
Liliana in casa mia cambiava. Si guardava i vestiti lisi e cercava di lisciarli, di sistemarli con le mani sporche. Poi si guardava le mani e girava gli occhi nervosamente altrove. Non si sedeva lei, lei no, restava in piedi, vicino alla porta, il tempo di una, due sigarette, le sue, mai le mie, e si raccoglieva i capelli, chiacchierando piano, a voce bassa, mentre le preparavo un tè che sapevo che non avrebbe preso. Mi ascoltava. Fingeva di ascoltarmi. E fingeva di dimenticare che era venuta per parlarmi delle voci. Ma il più delle volte mi costringeva ad entrare da lei. Mi costringeva è la parola giusta. Perché entrare da lei era un delirio. Le voci. Avevo imparato presto che di là l’ultima cosa al mondo che potevo dirle era che non le sentivo, che non c’erano. Che neanche potevo provare a inventarmi che erano altro, il fruscio del vento, le prese elettriche scoperte, i tubi che perdevano, i neon in fin di vita. Che pure sussurravano. Entrare da lei era entrare nel suo dolore, nella sua mente devastata dalle menzogne, dalle assenze, dalla vergogna, dalla colpa. Le voci? Le sue voci, le sue mille richieste d’aiuto mai ascoltate finivi per sentirle tutte, urlare, urlare in quei muri lacerati e grigi, rossi del sangue delle sue mani, della sua pelle consumata, della sua bellezza sfiorita e violentata, della sua paura e delle notti insonni di memorie senza amore. Finivi per sentirle addosso, frugarti il buio e il tuo silenzio, il tuo dolore, le tue assenze.
Lasciavo le porte aperte quando entravo da lei. Perché una parte di me restasse fuori, a tirarmi fuori di lì. Le ho lasciate aperte anche ieri.
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A volte smettono. A volte smettono e c’è silenzio. Ora che non ci sei ce n’è di più. Forse perché ti hanno già trovato e sono lì da te. Dovrei arrabbiarmi quindi, dannarmi che sei via e non posso più aiutarti e invece mi riposo. Come posso. Piangevi forte quella notte, quando sventrai i materassi per tirarle fuori, ti ricordi? E non volevi dormire a terra, dicevi che era sporco, che era freddo. E invece era più pulito. Più pulito di noi. E’ quasi strano adesso. Questo silenzio lungo interminabile. Che mi restituisce gli occhi per guardarmi il vuoto intorno, il vuoto dentro. Il vuoto sui miei anni che il tempo ha divorato, su questa pelle che era liscia e morbida e oggi è grinze e rughe e cicatrici e graffi. Sui miei capelli d’ebano lucenti ora grigi e stanchi più delle mie ossa.
Shhhh!
Eccole, ritornano, tornano a cacciarmi. Loro, loro sono i signori. Che cacciano e che nascondono quello che sono stati, quello che hanno cercato su quella pelle morbida che non c'è più. Che buttano nell’immondizia la pelle vecchia che non da più gioie, che non ha visto amore. La pelle che si vergogna. La pelle vuota che ha raccolto il vuoto delle loro vite.






http://www.lavalledeitempli.net/2011/12/03/la-pelle-vuota-%E2%80%93-di-cinzia-craus/