giovedì 15 dicembre 2011

Ada


Ho le mani vuote. Vuote di fame, di sogni, di abbracci, di tempo, di pace. Vuote di sangue. Del sangue che scivola piano sulla mia pelle lavando via l’ansia e il dolore con altro dolore.

Tengo su le braccia quando mi taglio. Guardo quei rivoli scorrere lenti, tracciare linee sottili e insicure che asciugano in fretta. Le prime volte l’odore del sangue mi dava la nausea. Oggi mi inebria. E’ l’odore del silenzio che ho dentro. Che immenso soffoca l’urlo.

La prima volta è successo per caso. O perché il caso ha voluto trovarmi. Non fu esattamente una bella esperienza. Una bella lezione. I miei genitori l’avrebbero chiamata così più avanti, convinti, e mi sorprende che lo siano ancora, che da questo finalmente avrei imparato qualcosa. E in realtà qualcosa imparai. Che forse dura poco, ma un dolore acuto, improvviso, di quest’inutile massa di pelle e di carne che ci trasciniamo sul cuore e sugli occhi, sui nostri respiri, riempie veloce ogni vuoto ogni abisso ogni piega di un freddo silenzio glaciale che spegne ogni cosa. La rabbia, la paura, l’orgoglio, l’amore, l’odio, il sonno, la fame, la sete. Il sangue odora di morte e di vita, di vuoto e di pieno, di necessario. E di inutile.

Avevo sedici anni. E avevo bevuto. Si beviamo un po’ tutti e un po’ tutto a sedici anni. Chissà quanti di voi lo hanno fatto. Lo si fa per gioco, per darsi delle arie, perché tutti lo fanno. Lo si fa per ridere insieme, di più. Per sentirsi più forti a volte, più sicuri. Per avere una scusa se fai qualcosa che a farla da sobrio non avresti la faccia di farla – che chissà perché ci vuole una faccia per fare quello che senti - ed è tanto che aspetti di farla. Qualcuno lo fa anche per non pensare per una sera. Che ha già qualcosa che gli brucia dentro. Da un giorno, da un anno o forse da sempre. Magari proprio la faccia che tutti si aspettano che debba indossare. E ogni sorso alimenta l’incendio. Io avevo bevuto un po’ di più degli altri. Bevevo sempre un po’ di più. Ma la faccia e l’incendio restavano lì. Nemici e già indissolubili amanti. Eravamo al mare. C’era una festa in una villetta nel parco che era piena di gente. Piena di gente che a guardarla da fuori di alcol ne aveva bevuto parecchio più di tutti noi messi insieme. Decidemmo di imbucarci, nessuno ci avrebbe notato. E bastava scavalcare un muretto sul retro, facendosi largo tra le siepi di lauro. Mauro passò per primo. Anna, che fino a un attimo prima piagnucolava che lei non voleva farlo, per non mollarlo a noi altre si infilò a ruota dietro di lui. Poi toccò a Sergio che l’idea era stata la sua. Avevo la nausea e a stento mi reggevo in piedi. Direi che era magari Fabio a reggermi. Non certo i tacchi da dieci che mi ero infilata sotto gli short. Bianchi, bianchissimi che sulla pelle scurissima che indossavo d’estate diventavano bianchi da lasciar senza fiato. Lasciandomi illudere che fossi io a lasciare senza fiato. Io, le mie gambe grassocce, come quelle di mamma, il mio corpo tozzo e indeciso, il mio viso troppo tondo, il naso aquilino, le labbra sottili. Devo dire che mia madre e mio padre si sono premurati di non farmi mancare niente. Ognuno di loro mi ha messo dentro il peggio di sé. E dentro gli occhi il peso dei loro sogni naufragati nel veleno della vita di ogni giorno. Avrei fatto meglio ad andarmene a casa, a buttarmi su un letto e dormire, che per una volta avrei sicuro dormito, la mia faccia scomoda sarebbe affondata nel cuscino e quello stesso cuscino avrebbe anche soffocato l’incendio. Ma quando mi riducevo così l’ultimo posto dove potevo tornare era a casa. A disturbare il silenzio perfetto delle facce perfette della famiglia perfetta nella vacanza perfetta. Così mi decisi a scavalcare anche io. Ma avevo bevuto. E mi girava la testa. Ed era buio pesto. Non lo so come feci, non so cosa feci, ma scendendo strofinai lentamente lungo quel maledetto muro che sembrava volermi abbracciare e stringere a sé come ancora nessuno aveva provato a fare. Un abbraccio che mi mancava da sempre e da sempre mi faceva male. E faceva male. Persi i sensi. Credo di averli ripresi dopo poco. Non so se tra le braccia di Paola o di Sergio o di Anna. O di mio padre. So che il giorno dopo ero in uno schifo di ospedale di provincia in una stanza con non so quanti letti e quante persone intorno a quei letti, che le finestre spalancate al sole non bastavano a portarmi l’aria che sentivo di dover respirare. Avevo entrambe le gambe fasciate. E una flebo nel braccio. Mi spiegarono che c’erano dei lunghi chiodi infissi nel muro per il sostegno delle piante giovani, che al buio non avevamo notato - gli altri saltando li avevano evitati - e che mi si erano conficcati nella carne.
Erano i chiodi che mi stringevano al muro per non lasciarmi andare. Come fanno certe parole. E come certe parole mi avevano aperto delle ferite di cui resta il segno. La cosa strana è che non facevano male. Me lo avevano fatto. Tanto da perdere i sensi. Tanto da perdere così tanto sangue da restarci tre giorni in quella stanza senza aria e senza silenzio, da farmi tornare bianca come i miei short ormai da buttare. Ma adesso il dolore era solo un ricordo. E un ricordo è una cosa finita. E’ quasi bella.

Quando tornai a casa e mi guardai allo specchio fu come guardarmi per la prima volta. Ero io bianca da mozzare il fiato e i miei capelli nero corvino erano molto più neri delle mie gambe grosse. Le mie labbra sottili due strisce di sangue sul viso. Quel sangue che se ne era andato. Mi piacque quello che vidi. Mi piacque da volerlo per sempre. Come la favola di Biancaneve e Biancaneve ero io. E la cosa che mi piacque di più fu il sapere che per diventare Biancaneve la strada faceva un gran male, ma quel dolore durava pochi attimi, che diventavano presto un ricordo, e coprivano tutto il resto. La faccia scomoda. Gli incendi dentro. Il silenzio gelido del sangue che se ne va che soffoca le urla che non puoi urlare.

Sono malata e lo so. Da allora non vado più al mare, in spiaggia intendo, che non voglio che il sole possa sfiorarmi la pelle. Non mangio carne, contiene sangue. Non mangio niente che sia stato vivo, che abbia portato dentro del sangue. Il sangue da me deve solo uscire. E deve farlo facendomi male. Coprendo il dolore con altro dolore. Più intenso e violento che toglie il respiro, che spegne ogni incendio. Che dura poco e diventa presto un ricordo. Che lascia segni che posso curare. Che lascia segni che posso vedere. Solo io. Ma questo vale per tutti i dolori.

Per gli amici non c’è un granché di strano. Siamo tutti un po’ strani a quest’età, mentre cerchiamo di essere noi senza sapere chi siamo. Mentre ci difendiamo o soccombiamo a quello che ci chiedono di essere. Sono Ada la matta, che ha paura del sole, Ada la vega, Ada la emo. Di etichette ce ne sono per tutto. E per tutti. Per i miei genitori è una moda. Che mi passerà. L’importante è che ho imparato qualcosa. Bere fa male.

 http://www.lavalledeitempli.net/2011/10/29/ada-di-cinzia-craus/

sabato 5 novembre 2011

Irene si guarda le mani

E’ quasi l’alba.
Ti guardi le mani cariche di vene.
E’ già tanto,
che è l’alba.
Che sei qui ad osservarti le mani e hai vinto il sonno. Era un po’ che non succedeva, che ti lasciavi vincere. A volte nei luoghi e nei momenti più assurdi e per tempi infiniti. Che ti lasciavi vincere in quella che tu vivi ormai come l’ultima tua battaglia. Dormire. Il sonno per te è diventato l’ultimo tuo nemico o l’ultimo amico che ti è rimasto. Che un nemico quando lo vinci è l’amico che ti ha dato ragione di esistere.
L’alba e un altro giorno inutile. Ma non sono l’alba, il giorno, il tramonto, la sera, la notte che scandiscono il tempo, sono il sonno e il risveglio. Hai smesso di dormire quando hai capito che svegliarsi era inutile. Senza senso.

Tic, tac, tic, tac, tic, tac.

Anche le ore non hanno senso. Sono tutte assolutamente uguali. E vuote.
Dicono che quando fai qualcosa che ami il tempo, le ore, volano in fretta. Che il tempo, le ore passano lente quando non hai nulla da fare o quello che fai ti da noia. E’ un anno che mi guardo le mani e mi sembra di avere iniziato ieri. Non mi annoia. Non mi appassiona. Le guardo, e intanto il tempo degli altri scorre.

Tic
Tac
Tic
Tac
Tic
Tac

Non sei sempre stata così.

Non è sempre stato così.
Irene aveva un sacco di amici. Irene viveva un sacco di amici. E un’interminabile scorta  di sogni che lei preferiva chiamare progetti. “Volere è potere” si diceva ogni giorno e lo diceva a chi invece aveva paura. Era un treno senza fermate. Di quelli che ti travolgono e ti portano via, e ti cambiano qualcosa dentro, per sempre. Era stata un treno a scuola, nello sport, all’università, lo era quando lavorava. Nei suoi occhi brillava la fiamma viva della passione che divora ogni cosa. Qualunque cosa facesse. Le sue mani nervose tracciavano, sulla carta, sui muri, nell’aria, nel vento, le linee dei suoi pensieri che si facevano parole. Che suonavano forte. Potevi amarla e seguirla. O odiarla. E l’avresti seguita lo stesso.
E sapeva ascoltare Irene. Irene ascoltava ogni cosa e da ogni cosa si lasciava riempire. Ascoltare sentire vedere conoscere, mangiare bere dormire respirare.
Troppo. No non fraintendetemi non c’è mai un troppo per chi ha sete di crescere, per chi ha fame di vivere. Ma c’è un troppo per chi ascolta col cuore. E che nel cuore ha anche una testa. Perché Irene mentre ascoltava pensava. Pensava alle cose che aveva ascoltato. Pensava alle cose che aveva sentito e visto e conosciuto. Pensava alle cose che aveva vissuto.
E mentre ascoltava e pensava le ombre crescevano piano e poi forte e poi ancora più forte, da sopra la pelle, da sotto il cuscino. E tutti i colori, gli odori, i sapori, perfino i dolori diventavano uguali. Tutti suoni del mondo diventavano uno, una sola parola meschina ed ipocrita e falsa.

Tic, tac, tic, tac, tic, tac.

Non sono le ombre che mi hanno fermato. Non sono le ombre. Piuttosto la luce. Non sono le ombre che mi hanno fermato.

Tic, tac, tic, tac, tic, tac.

Lo so, lo so Irene. Non sono le ombre che ti hanno fermato e credimi non è stata neanche la luce.
Ti guardo la fiamma negli occhi. Ogni tanto si accende. Basta trovarti qualcosa da fare, qualcosa da fare  che bisogna fare, qualcosa che ti accenda il pensiero che lo faccia vibrare, volare lontano. Basta, a volte, qualcosa che ti faccia ridere. E ancora succede che ti ci voglia poco. A ridere. E il treno riparte.

Tic
Tac
Tic
Tac
Tic
Tac

Tra poco è di nuovo Natale. A casa di Irene è Natale da un anno. L’albero è un po’ impolverato, le luci, il presepe. E’ rimasto tutto lì. Come le valigie di quest’estate. Come le pagine dei calendari ferme ad un tempo lontano. Come le liste di cose da fare. Le ore vuote sono così piene da lasciare senza tempo, senza respiro. Irene si guarda le mani.

Driiiiiiiinnnnnn

Il giorno degli altri comincia.
Faccio qualcosa che si deve fare. Magari mi impegno e rido e sorrido. Magari mi seggo e mi guardo le mani. O forse mi raggomitolo stretta nel letto e mi lascio dormire. Tanto qualcosa mi verrà a svegliare. Qualcosa che non ha spazio né tempo, che non ha pensiero, che non ha bisogno. Non ha bisogno del mio pensiero. Qualcosa di vuoto si verrà a infilare nelle mie ore piene di vuoto. Che non chiede pensiero, che non chiede parole. Che non riempie le mani. Che son troppo piene. Il treno non parte con un sorriso.


domenica 30 ottobre 2011

Cianuro

Paolo l’aveva corteggiata per anni. Mai in modo esplicito o diretto, ma in quel modo vago e sottile insieme e silenzioso che gli sembrava adatto a giustificarsi dei suoi fallimenti. Perché lei era una che non dava peso ai doppi sensi, ai silenzi, ai significati nascosti, al non detto. Glielo aveva detto mille volte: “Per me quel che conta sono le parole e i fatti, niente altro; io non penso, non rimugino, non sogno, non guardo dietro”. E l’illusione che in realtà lei capisse molto più di ciò che lasciava ad intendere preferiva evitarla, che gli sembrava un tradimento. Si perché Carla era la sua amica, la sua amica di sempre, o forse lui, Paolo, era il suo amico di sempre, di lei, il suo confidente; ma anche il suo pezzo mancante, era proprio lei a dirgli così, o meglio i suoi pezzi mancanti, pezzi di uomo, pezzi di donna, di sensibilità che sentiva di aver perso o di non avere mai avuto. E gli seccava parecchio anche quel verbo che gli era venuto in mente invitandola a cena quella sera che era tornato in città dopo tanto tempo (quanto tempo era che non si guardavano negli occhi, che non sentiva il suo odore, che non asciugava le sue lacrime, che non si scambiavano gli accendini finendo a fingere di litigare, che non le lasciava la sua birra perché lei la finiva sempre prima?): corteggiare… non si può corteggiare un’amica, anche questo è un tradimento e sa di falso e meschino, respirare i suoi respiri, abbracciarla, stringerle le mani, crollare addormentati insieme su un divano dopo una nottata da balordi a bere e a fumare e a farsi male e bene insieme, o stringersi in un sacco a pelo nella casa di montagna perché nessuno ci è già stato prima e nessuno si è accorto che la caldaia è andata e i materassi sono tutti muffa per colpa di un’infiltrazione. Non puoi ascoltarle le sue storie e i sogni e i desideri e i viaggi e leggerle sul viso l’amore per un altro e intanto volere che sia tua, desiderarla, sceglierla. E’ da bastardi. E Paolo si sentiva il peggiore dei bastardi mentre dalla valigia sceglieva la camicia che meglio aveva retto al viaggio, tirava fuori il profumo, cercava in mezzo a quel casino che era il suo modo assurdo di fare i bagagli (lei ci aveva fatto ricami di ogni genere su questo luogo comune di “voi maschietti”) i boxer nuovi che aveva comprato giusto due giorni prima di partire, due giorni prima per avere il tempo di lavarli e asciugarli al sole, che fossero nuovi ma che apparissero usati, che non fosse scontato che se poi, se poi insomma glieli avesse visti addosso, fossero una cosa premeditata. Ma lo erano. Come evidentemente lo era tutto quello che stava facendo. Come sarebbe stato premeditato agli occhi di lei tutto il percorso che in quegli anni avevano fatto insieme. Tutte quelle accidenti di serate e notti a telefono a parlare di sesso, e le domande, e ogni risposta catalogata e registrata. Paolo sapeva tutto quello che poteva fare e quello che non avrebbe mai dovuto fare. Anzi, sapeva che non c’era niente che non poteva fare, a dire il vero. Sapeva quante notti su certe cose che gli raccontava non ci aveva dormito o, peggio, vigliaccamente ci aveva acceso e consumato il suo desiderio. A volte addirittura mentre parlavano, lasciandosi accarezzare dalla sua voce, che diventava mani e labbra e lingua e pelle. Sapeva tutto quello che le piaceva, che la faceva impazzire, quello che nessuno sapeva mai e ci metteva mesi per arrivarci e magari ci arrivava quando ormai lei era già stanca e pronta ad andare via. Perché poi sapeva anche questo. Che era una che amava senza limiti ma che tanto era lenta e difficile ad accendersi tanto era facile, fulminea a spegnersi. Detto così magari suona male, anche se lei non si faceva problemi a dichiararsi incostante. Soprattutto perché i fatti non le davano ragione. Gli stessi fatti che per lei erano l’unica verità in cui credere. E i fatti erano che aveva avuto solo lunghe storie o lunghi amori e tutta la volontà e l’energia  per farli sopravvivere. Finché poteva. Finché non esplodeva. Come una bomba ad orologeria di cui nessuno aveva sentito il ticchettio per mesi, anni, nessuno lo aveva ascoltato. Si perché era questo quello che la scazzava di più, che nessuno era capace di ascoltarla. Quando non parlava.
Lui invece no, lui l’ascoltava sempre. Non era facile a volte, ma si sforzava di ricordarsi tutto, anche quello che gli faceva male, anche quello che non gli piaceva. E ce ne erano di cose che non gli piacevano. Perché Carla con la sua schiettezza, la sua intelligenza, la sua cultura, la sua curiosità era quel tipo di donna che gli uomini temono, quel tipo di donna da cui gli uomini scappano. E lei li guardava scappare senza mai una parola di biasimo, pronta a comprenderli, a giustificarli, a trovare un modo per continuare ad amarli. Già questo non gli piaceva, perché lo faceva sentire più piccolo, più fragile, più povero.  Ma ancora peggio era quando la sua franchezza con naturale assoluta disinvoltura diventava cinismo, almeno ai suoi occhi, e gli apriva una finestra sul mondo delle donne, della loro sessualità, delle loro confidenze, dei loro commenti, così maledettamente simili a quelli degli uomini - che invece è un luogo comune e insieme una leggenda metropolitana - che si raccontano tante cose e tanti particolari quanti se ne raccontano loro. Stronze! Non gli veniva in mente altro quando lei parlava delle continue defaillances di Luca con la sua amica Sara, di Chiara che con Marco veniva solo una volta all’anno e che preferiva farsi da sola, di Marcella che di ogni uomo che cambiava gli prendeva le misure all’uccello, lunghezza e diametro, e che era la prima domanda che le faceva quando cominciava una storia nuova e ne diceva di tutti i colori sugli attributi degli uomini passata una certa età, che finivano per sembrare quella specie di caciocavalli, vattelapescacomesichiamano, messi ad asciugare e dimenticati al caldo che mezzi si avvizziscono mezzi si appendono prendendo le forme più strane. Marcella, vaffanculo! Quaranta anni suonati e un culo sui talloni da quando è nata, cellulite da farci il lesso una meraviglia e tette a scomparsa nel senso che a furia di far diete c’era rimasto ormai solo l’involucro appassito. E Carla la sosteneva: “Mica invecchiamo solo noi Paolo! State a filarvi le ventenni che vi insaccano con le loro chiappe toste e spesso e volentieri con tette già rifatte, e noi lì a guardarci e contarci rughe e capelli bianchi (meno male che io non me ne sono mai fregata un cazzo – ed era vero, forse solo qualche volte Carla cadeva in questa trappola bastarda che invece stringe la gola a tante, e succedeva solo quando cominciava ad aver paura, paura di amare davvero, o peggio di essere amata davvero – e i miei capelli bianchi me li tengo e ci sguazzo e le mie rughe contano più del mio culo che se ne sbatte della gravità) e a piangerci addosso e contarci le botte che ci restano. Pure noi ve le guardiamo le rughe e la pancia in fuori e i muscoli scesi e i capelli, che grigi o bianchi faranno pure glamour, ma dipende da dove vi sono rimasti, e si, che vi piaccia o no ce li ricordiamo gli uccelli che abbiamo incontrato da giovani e, magari, se c’è altro uno non sta lì a soppesare e far confronti, anzi, si innamora proprio di quello, delle differenze, dei difetti, delle debolezze, ma se c’è altro…”
Ora davanti allo specchio, appena uscito dalla doccia Paolo si guardava. E avrebbe voluto venti anni in meno per quella donna che conosceva da venti anni, per quella strega che avrebbe riso con le sue amiche delle sue gambe troppo magre, delle sue maniglie dell’amore, dei peli bianchi sul petto, del culo stretto, delle rughe no, che le sapeva bene, ma magari del suo coso si, che mica gli sembrava fresco e tosto insomma, funzionante si, mai avute defaillances lui, forse un paio di volte, ma da giovane, quella volta del festino col giro di coca, ma in fondo si, niente di che, anche se mai nessuna si era lamentata. Non con lui almeno. Non con lui perché ‘ste stronze si lamentano tra loro, con te sono tutte mmmhhh ahhhh siiiiii e possono fingere quanto vogliono, che Carla ci aveva pure provato a insegnargli come fare a capire se una finge ma siccome poi lei con una donna non c’era stata mai mica lo sapeva di certo se il sistema era affidabile e alla fine lui non era poi così sicuro che lo voleva sapere.
Finì di vestirsi che non sapeva più se era contento o incazzato. Se la amava o la odiava. No questo no. Perché l’amore non c’entrava niente, e quindi neanche l’odio. Non che ne fosse certo ma ci mancava solo che si mettesse adesso a ragionare su questo. Se la voleva ancora o se era meglio continuare la commedia dell’amico. Che poi commedia cosa? Carla era la sua amica davvero e questo era un altro problema non da poco. Perché una scopata, perché quello era, fantastica o meno che sarebbe stata, poteva mandare a puttane tutto e che lui che ne sapeva se sapeva vivere senza Carla e se Carla sapeva vivere senza di lui. Con chi avrebbe parlato la notte in quelle notti senza sonno e senza sogni? Chi gli avrebbe ricordato i compleanni, i numeri di telefono degli amici che lui si perdeva sempre, gli indirizzi, gli orari dei treni?
Prese il portafogli dal comodino affianco al letto e meccanicamente lo aprì per controllare che ci fossero i preservativi. I, non il. Perché quando ti capita se il cielo te la manda mica puoi giocarti l’occasione e star sui conti. E sapeva pure che Carla, “tutto l’amore del mondo ma senza preservativo finchè non sei il mio uomo (e quando è che sei sicura?) e non hai fatto il test e non so’ passati sei mesi e non l’hai rifatto e….” “e madre ma arriverà il giorno che qualcuno ti brucia il cervello e ti fulmina come stai! (e qui in genere si scoppiava a ridere come i bambini quando gli fai il solletico). Lo sapeva, quindi era normale che ci avesse pensato. Come era normale che anche questo non gli piaceva. Che ci aveva pensato perché lo sapeva. Anche questo lo sentiva come un tradimento.
Tradimento. In macchina mentre andava da lei questa parola gli scoppiava nella testa. No, tanto era prepotente che gli usciva a forza dalle labbra, rimbalzava sui vetri, sul cruscotto, sul volante e gli rientrava nelle orecchie, gli bruciava agli occhi, gli pungeva la pelle, gli pizzicava il naso. Ne avevano parlato spesso lui e Carla.  Carla non era gelosa. Non lo era più da un pezzo. Perché lei e tutte quelle menate sulla natura dell’uomo e l’istinto e la filosofia e la psicologia. Lei e la sua sicurezza. Lei e succede. Lei e però se succede a me è diverso perché finché amo io non ci riesco. Però se sto male ci provo, così poi ho una colpa da scontare con me stessa e una scusa per scappare. “Perché io sono gelosa di me, e di quello che sento”. “Io invece ero, sono geloso – e stai sicura non di me, che invece me ne frega altamente, che noi uomini se ci capita una scopata è una scopata e basta, non come voi che ci buttate l’anima - come un siculo della preistoria che invece per colpa del siamo nel duemila, dell’emancipazione, del femminismo, della cultura, della sinistra e di tutte queste cazzate si è ingoiato la bile tutta la vita e continua a farlo, fino a strozzarsi per imparare a soffocare le parole e a fingere di essere quello che non è”. Ma non lo aveva detto neanche a lei. Lo aveva pensato mentre lei parlava, gli stava quasi per scappare certe volte, ma era riuscito a trattenersi. Perché il duemila, l’emancipazione, il femminismo, la cultura, la sinistra, e lui a Carla neanche riusciva a dirlo che per lui non contavano un accidente. Che lui la sua donna che andava con un altro neanche morta se la sarebbe ripresa. E che l’altro, togliersi la soddisfazione di torturarlo brutalmente – ammazzarlo no, per fortuna a questo non ci arrivava – non se lo sarebbe negato manco a fronte di dieci anni di galera, di un plotone di esecuzione o di una vita nella legione straniera. A Carla annuiva in silenzio. Che capisse che era d’accordo. O che intuisse la verità tanto poi contavano i fatti e quindi l’intuito non valeva. Ma quello che gli pesava adesso era il tempo che lei ci aveva messo a dirgli ti voglio bene quando lui d’istinto a lei lo aveva detto la prima volta che l’aveva abbracciata, mentre piangeva per il bastardo di turno e si era sbronzata di brutto da non riuscire neanche a stare in piedi. Ci aveva messo tanto perché per lei un amico resta sempre. Perché per lei ti voglio bene è per sempre. Come un figlio. E come niente altro. E soprattutto perché se quando amava amava incondizionatamente e senza attese quando voleva bene no, sceglieva e sceglieva con la testa. E le attese c’erano, e le delusioni e le mazzate pure. Paolo in quel momento si sentiva una mazzata. Forse non la peggiore, forse magari Carla con lui poteva prenderla con leggerezza per una volta. Ma se lo diceva perché non trovava appigli in quella vasca di vetro in cui si era trovato quando quella molla compressa per anni nella sua testa, nei suoi sensi, era scattata spingendolo a tornare. Costringendolo ad ammettere che forse in fondo se ne era andato anche per questo, per evitare che scattasse.
Arrivò sotto casa di Carla con i soliti dieci minuti di anticipo. Con i soliti dieci minuti di anticipo nei quali di sarebbe girato i pollici sulla panchina alla fermata del bus prima di chiamarla per non rompere perché lei odiava chi le metteva fretta. Eppoi se li sarebbe girati per altri dieci minuti dopo averla chiamata perché tanto come sempre lei sarebbe stata in ritardo.
Invece puntuale alle nove Carla fece capolino dal cancello del parco. Non era sola. Paolo guardava quell’uomo affianco a lei mentre insieme aspettavano di attraversare la strada per andargli incontro maledicendo di non essersi messo gli occhiali. “Sarà suo figlio, non lo vedo da anni, è bello cresciuto, vorrà salutarmi. O il suo collega, avranno finito adesso di lavorare, quello giovane, fresco sposato, innamorato perso della moglie, non lo conosco neanche”. Ma mentre attraversavano si tenevano la mano ed era troppo vecchio per essere suo figlio e anche per essere il suo collega, di dieci anni più giovane di lei. Paolo ricacciò in gola quello che gli restava della sua torturata bile per nascondere in mezzo ai denti di un sorriso di gioia, che in ogni caso l’amicizia e l’affetto gli impedivano di contenere, la rabbia e la sorpresa di quello che gli stava cadendo come un macigno addosso. “Ciao Paolo” Carla lo abbracciò forte, come sempre. “Ti ho tenuto un segreto, perché volevo farti una sorpresa e volevo che per una volta toccassi la mia felicità invece che le mie lacrime. Lui è Giorgio, tra sei mesi ci sposiamo. Ti toccherà tornare ancora”
Un mese dopo Paolo raccoglieva, a telefono, le lacrime di Carla. Giorgio, sua figlia, sua nonna, sua zia, i soldi e il lavoro e l’ansia e la depressione. Ma qualcosa questa volta non suonava. Non suonava come sempre la sua voce. Non lo accarezzava. E non era la sua rabbia no, che quella era passata in niente, mangiando e ridendo insieme quella sera stessa, finendo la serata in spiaggia insieme tutti e tre testa a testa, la sabbia tra i capelli, a guardar le stelle, stonando a turno improbabili miscugli di pezzi di Guccini, degli Squallor, di Bob Dylan e dei Rolling Stones. La abbracciò con le parole, come tutte le altre volte in cui lo aveva fatto. Non le disse niente. Per Carla contavano le parole e i fatti, non le intuizioni. Per Paolo contavano le intuizioni. Erano uno dei pezzi che lui regalava a Carla.
Carla quella volta invece aveva creduto al suo intuito e aveva capito tutto. Giorgio era stato il suo complice. Per evitare un tradimento spegnendolo in un segreto.

giovedì 27 ottobre 2011

Livia

Ho messo dodici sassi in fila.
Dodici giorni, dodici notti, dodici parole.
Fin qui.
Ho messo dodici sassi in fila.
Sporchi di tempo, di sangue e sudore.
Sporchi di mani che cercano amore.
Non c’è.

Livia guarda fuori dal vetro ed un raggio di sole le illumina gli occhi che non hanno lacrime. E’ giorno, anche oggi, di nuovo.

Si alza dal letto e prepara il caffè. Oggi è festa. Oggi è festa per cosa e per chi? Accende distratta una sigaretta. Quella delle sei e trentacinque. Del lunedì, del martedì, del mercoledì, della domenica. Certo i ragazzi si alzeranno più tardi, oggi non deve svegliarli. Questo deve ricordarselo nei giorni di festa. E Marco, il profilo, l’ombra di Marco, girerà tutto il giorno per casa, occuperà un posto in più sul divano, sposterà qualche oggetto che lei dovrà poi con calma rimettere a posto. Non che qualcuno se ne accorgerebbe. Che è fuori posto. A casa di Livia nessuno sa dove stanno, dove vanno le cose. Per questo c’è lei. Sempre. Per tutti e per tutto c’è lei. Anche se nessuno la vede da un pezzo.

Silenziosa e invisibile perlustra le stanze adesso. Raccoglie maglie, pantaloni, calzini, mutande. Li osserva, li annusa. Pensa alla cesta che ha fatto fare del bagno. La cesta dei panni sporchi. Quella che usa solo lei da sempre. Pensa alle mille parole sprecate, dette, ripetute, urlate, implorate. No non ci pensa. Non ha neanche senso. Avvia la lavatrice e mette in ammollo le cose che ha scelto di lavare a mano. Mentre il bacile si riempie e la schiuma si gonfia tira su col naso. Sono giorni che si trascina questa maledetta influenza che non vuole passare. L’hanno avuta tutti. E’ stato un buon diversivo in fondo. Un ciclico déjà-vu, ma pur sempre un diversivo. Ed è anche durato un bel po’. Perché l’hanno presa a turno. Ha iniziato Marco. Insomma iniziato è una parola grossa. Per Livia almeno. Che sa quando l’influenza le va via, che smette di tossire, di starnutire e di tirar su col naso, ma non sa quando inizia, che niente le cambia. Marco trentasette di febbre e sei giorni a letto di lamenti disperati. E di silenzio totale che forse i ragazzi sarebbe meglio che andassero dalla nonna che fanno troppo rumore e a me scoppia la testa. E colazione e pranzo e cena e sigarette, soprattutto quelle, e televisione e giornali e riviste e telefono e diocosaltrotiserve nel letto. Senza tregua. Poi uno alla volta è toccato ai ragazzi. E lì la battaglia è stata, da cliché,  a corrente alternata. Di mattina un delirio di malanni e di invocazioni di aiuto-amore-assistenza-pietà sto troppo male anche se non ho più febbre non ce la posso fare ad andare a scuola!, di sera non ho più niente cazzomamma perché non vuoi farmi uscire!

Guarda l’orologio Livia. Neanche avesse un impegno, un appuntamento. Le sette. Se non fosse domenica dovrebbe svegliare i ragazzi e mentre litigano per il bagno preparare la colazione, controllare gli zaini, trovare i guanti, i caschi, i portafogli, i telefoni, i documenti e le chiavi del motorino. Meno male che ne hanno uno in due. Almeno documenti e chiavi si trovano in una volta sola. Massimo in due. C’è tempo per un’altra sigaretta e un secondo caffè. Un privilegio dei giorni di festa.

Stamattina l’aria è più fredda. Rientra in camera da letto e prende una vecchia giacca di lana dall’attaccapanni. Mentre Marco dorme il sonno dei giusti. Esce sul balcone nell’aria frizzante. E’ domenica, fa freddo ed ha l’influenza. Avrebbe potuto chiedere a Marco di toglierle e stenderle i panni visto che resterà a casa. E di innaffiare le piante. Le sue piante. Quelle di cui lui va tanto fiero che crescono rigogliose senza chiedere niente. A lui. A Livia si. A Livia chiedono acqua e a volte anche della terra nuova, del concime, dell’antiparassitario. Ma è solo un pensiero. Neanche. In fondo loro qualcosa le danno. Colori. Intensi e vivi. E’ quasi un peccato che stamattina fa freddo.

Ripiega i panni e li divide in tante file ordinate sopra il divano. Quella più grande è quella dei panni da stirare. La più misera è quella delle sue cose. Esce poco Livia. Per far la spesa, per qualche commissione, per le sigarette. Qualche volta accompagna i ragazzi a una festa, o li va a prendere, in piena notte. Lei, non Marco, che la mattina deve andare a lavoro o che la domenica è l’unico giorno che può riposare.

Le sette e quaranta. Tommy ha accordato il suo orologio biologico ai ritmi immutabili dei giorni di Livia con una precisione che ha del grottesco. Ha avuto poco tempo per fare il cucciolo pestifero. E’ arrivato quando i ragazzi avevano da tempo smesso di chiederlo. Marco non voleva altri impegni. Altri. Impegni. E in altrettanto poco tempo ha capito che c’era una sola persona che poteva dargli tutto quello di cui aveva bisogno. Compreso l’amore. Compreso i giochi. Perché Livia gli aveva ritagliato del tempo anche per quello. Così alle sette e quaranta precise il suo muso lucido e nero è sulle gambe di Livia che fuma la terza sigaretta affianco ai panni ripiegati. La terza oggi che è un giorno di festa. La seconda in un giorno normale, con i panni ancora da ritirare e le piante ancora da innaffiare, dopo aver salutato i ragazzi e avergli lanciato dalla finestra il cappello, la sciarpa, il diario, il quaderno per le esercitazioni, le squadrette no che si rompono risali a prenderle, vienimi incontro che si fa tardi.

Ok Tommy, acqua e croccantini mentre la mamma va in bagno a vestirsi. Oggi c’è il parco, sei un cane fortunato. Perché è domenica ed i panni sono già dentro. E le piante hanno già avuto l’acqua.

Le otto e un quarto. In un giorno normale Tommy starebbe ansimando vicino alla porta per rientrare in casa a svegliare il padrone. Illuso che sia un privilegio concesso. Non sa che è l’unica piccola amara vendetta di Livia. Che Livia concede a se stessa. Gli apre la porta della stanza da letto e lo lascia entrare davanti a lei. Tommy salta festoso sul letto su Marco incapace di provare a difendersi. Oh la paga Livia quella vendetta, la paga. Perché Marco si alza furente che insomma che cosa ci vuole a tenere un cane e che lui non ci dorme in un letto pieno di peli; e lei dovrà disfarlo e dovrà stendere le lenzuola e le coperte all’aria, mentre lui è nel bagno, e prima che vada via, che deve vederlo per esserne certo. La paga. Ma sente la sua voce. Ancora impastata di sonno. Rivolta a lei. Come nelle mattine di tanti anni fa. La sente e si chiede perché vuole ancora sentirla. Perché vuole ancora sentirla se le graffia l’anima e le brucia dentro come una manciata di sale, se sente di non avere più sangue da spendere a bagnar le ferite.

Le otto e quarantacinque. Fino alle nove per passare dal giornalaio a comprare il giornale e al distributore delle sigarette. Di domenica.

Dodici sassi. Oggi è domenica e sono dodici mesi. Dodici mesi che Andrea se ne è andato. Andrea che in un soffio le ha messo le mani sul cuore. Quel cuore che lei non sentiva di avere. Dodici sassi per dodici giorni. Di tutto e di niente e di non poter stare.

Sono le nove. Livia ha aperto la porta la porta di casa. C’è da stirare, da far da mangiare. Poi i ragazzi, poi Marco, poi i letti, le stanze, poi il pranzo, poi i piatti, poi Tommy, poi. Poi sera, poi notte, poi giorno.

Sulla mensola in bagno ci sono trucchi e smalti e profumi. E ricordi. Soprattutto. Il rossetto è secco e le brucia le labbra screpolate dal freddo. L’eyeliner. Quando aveva le lacrime l’eyeliner e Livia non andavano molto d’accordo. Quando ha smesso di averle ha smesso di usarlo. Ha l’aria stanca Livia. E truccata ce l’ha ancora di più. Specie adesso, con questo trucco pesante. Ma va bene, va bene così. Perché ha sonno Livia. Ha sonno da così tanto tempo e nessuno lo sa. Tommy. Tommy si, Tommy qualche volta l’ha vista, l’ha vista crollare d’un pezzo sul divano o su un letto o su una poltrona. Rannicchiarsi e farsi piccola, piccola come una bambina. E l’ha vista rialzarsi indolente e distratta, l’ha vista parlare da sola, ballare da sola, tenersi le mani da sola. L’ha vista di notte anche. L’ha vista di notte guardare lontano. Guardare lontano e cominciare a contare.

E’ presto, è ancora presto. Ma oggi il tempo di Livia ha un tempo diverso. Oggi segue i suoi conti. Ha aperto la porta della sua stanza e Tommy si è buttato felice sul letto, felice su Marco, con le zampe piene di fango. Non è entrata a riprenderlo.

Oggi è domenica e si mangia alle due. Ma questa volta si mangia qualcosa di pronto. E forse non proprio alle due. Lo prenderò per la strada tornando. Fa freddo e ho la febbre. E dovrei stare a letto. Ma è festa. E sono dodici mesi. Ho dodici sassi da posarmi sul cuore.


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