giovedì 16 febbraio 2012

Abbracciami


“Sono preoccupata per Bea.” Non aveva ancora detto nulla Teresa, da quando era rientrata, più tardi del solito, e in fretta e furia si era messa ai fornelli perché la cena non subisse ritardi. Non aveva parlato neanche mentre apparecchiava la tavola, con cura, come sempre, come piaceva a lui, con i piatti buoni, i bicchieri di cristallo, le posate schierate secondo galateo. Per una cena cena. Come piaceva a lui che poi se invece si sceglieva di mangiare “strano”, come piaceva a lei, era però il primo a divertirsi a mangiare con le mani, o con le bacchette, o con quei lunghi stuzzicadenti con i quali lei serviva certi bizzarri contorni africani. Magari a terra, sdraiati sui cuscini. O acciambellati intorno a quel tavolino basso che lei aveva voluto apposta per le sue “variazioni” esotiche. Non mangiava volentieri Teresa. O meglio, si stancava. Si annoiava. Come di tutto ciò che era ripetitivo. Ancor più se riteneva che fosse qualcosa che in qualche modo doveva procurare piacere. Pure la sua ricerca di variazione non era mai affannosa, mai affettata; era anzi gioiosa. Una piccola sfida costante che le accendeva la voglia di esistere. Per scoprire ancora.
Adesso, a tavola, finalmente rilassata, le prese il bisogno di condividere quella sensazione di angoscia che le aveva messo addosso il suo incontro con Bea, la sua amica di sempre. D’altra parte era normale. Condividere. Teresa gli raccontava tutto, da sempre. E lui amava stare lì ad ascoltarla, l’avrebbe ascoltata per ore. Si incantava ad ascoltarla. I loro pensieri si incontravano sempre, anche quando magari partivano da punti lontani, finivano sempre per arrivare in un posto dal quale riuscivano a ripartire insieme. “E’ di nuovo in una storia. Alla quale lei stessa, come sempre, non concede un futuro.”
Bea e Teresa si conoscevano da tanto tempo. Una di quelle amicizie basate su un’affinità profonda dell’animo. Potevano non sentirsi, non vedersi per mesi, ma c’era sempre come un filo a tenerle unite. E per quanto negli anni le loro vite si fossero divise, trasformate, quel comune sentirsi, dentro, era rimasto immutato. Si riconoscevano.
“Io la capisco. Tutto quello che ha vissuto, che ha visto. Le ipocrisie. Le ipocrisie più basse e insensate, in nome di valori che non si sentono ma si decide di difendere. E peggio. L’incapacità a riconoscersi ipocriti. Il dito puntato contro gli altri, la lingua come una lama tagliente e impietosa, lo sguardo fiero di chi è senza peccato. Teso a guardar fuori, a giudicare gli altri e mai sé stessi. Spesso delle stesse identiche colpe.” “Vuoi dell’altro arrosto, amore?” “Senza contare quello che lei è. Come è fatta. La sua libertà, l’apertura mentale, l’insaziabile curiosità che le rende impossibile riconoscersi, o imporsi, dei limiti o dei pregiudizi. La versatilità con cui riesce a viversi e spendersi in pianeti talvolta diametralmente opposti, perfettamente a suo agio dovunque. Beh, sì, dovunque tranne dove si mente per vivere. Cioè un po’ dovunque. Dovunque almeno in quel mondo di cui poi in fondo è fatta, perché in quel mondo ci è nata e cresciuta, a cui ha dato battaglia ma che l’ha comunque formata, riempita. Ti ricordi quando diceva è colpa dei libri? Colpa di tutto questo maledetto sapere, e la filosofia e la psicologia e l’osservazione e la profondità? Sì che te lo ricordi. Te lo ricordi perché lo dicevo sempre anche io. Ne parlavo spesso anche io e te. I ribelli passano la vita a tagliarsi radici che inevitabilmente ricrescono. Che li rendono diversi per tutti. Da tutti. Da quelli che rifuggono e da quelli in cui non riescono a ritrovarsi. Se non in misura parziale.”
“Ho preso delle paste di mandorla, ne vuoi?” Teresa liberò la tavola da tutto ciò che non occorreva più, con cura raccolse le briciole e tornò con un grazioso vassoio con su piccole delizie sobriamente decorate, due piccoli calici e una bottiglia di passito di Pantelleria.  Sceglieva lei il vino, da sempre. Anche se una volta su questo avevano discusso. Ma alla fine l’aveva spuntata, dopo tutto era lei che cucinava e faceva la spesa. Aprì il vino e riempì lentamente i calici. “E’ la sua “pienezza”. Finisce sempre per diventare troppo, per fare paura. Anche a lei stessa. Che non ammette di dover rinunciare a parte di sé per compiacenza. Pur ammettendo che trovare qualcuno con cui potersi vivere appieno su tutto, su troppo, è quasi impossibile. Ormai lo ammette d’anticipo.”  Bevve il vino d’un fiato.
Lui rideva quando lei beveva così. Mandando al diavolo le etichette insieme al pregio di quello che aveva accuratamente selezionato. Rideva perché sapeva che dietro quel gesto c’era insieme la voglia di mandar giù qualcosa che la feriva e il desiderio di riafferrarsi prima di farsi male. Con l’allegria e la leggerezza. O con l’abbandono. D’altra parte era così che si erano conosciuti. Con troppe cose da buttare giù. Con il mondo da buttare giù. Con le radici a crescere e loro a tagliarle, con le paure a dirsi a raccontarsi e le parole a piovere a dirotto, a difendersi dalle paure. A cercarsi per riconoscersi, per accettarsi, per perdonarsi. Teresa riempì ancora il bicchiere e si accese una sigaretta.
“Sta bene sai. Se la guardi ti sembra la Bea di venti anni fa. Che fa la tosta ma la vedi che non ci riesce.” Bevve ancora. Un brivido le percorse la schiena. “Ma dietro gli occhi e nelle mani ansiose glielo leggi che ha già visto avanti. O indietro.”
Sparecchiò la tavola fumando ancora, nervosamente. “Noi siamo stati fortunati. Ad incontrarci, a riconoscerci. E abbiamo avuto la fortuna di iniziare dal rovescio. Dal peggio che avevamo dentro. Dal buio. Da quel buio che ti prende dentro quando senti che non hai più radici e che non hai più un posto dove andare, né uno dove tornare. Ce lo siamo vomitati addosso quel buio. E ce lo siamo abbracciati. Fino a non sentirci più soli. Te lo ricordi vero?” “Ho freddo stasera amore. O forse è stanchezza. O è quando vedo lei. Che rivedo me, me quando tu non c’eri, quando non ti cercavo, quando non ti aspettavo, quando non ci credevo più.  Si farà del male, ancora. Non è facile trovare un posto dove farsi bene.” “Portami a letto. Andiamo a letto amore e abbracciami, tienimi stretta, tienimi.” “Anzi, anzi ti abbraccio io, ti stringo io, come sempre. Sì, come sempre è meglio.”
Teresa spense le luci e si infilò nel letto. Si rannicchiò in un angolo sotto il piumone a stringersi la pelle sulla carne, la carne sulle ossa, le ossa dentro il cuore. Ed abbracciò il cuscino. Forte.



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