Dodici giorni, dodici notti, dodici parole.
Fin qui.
Ho messo dodici sassi in fila.
Sporchi di tempo, di sangue e sudore.
Sporchi di mani che cercano amore.
Non c’è.
Livia guarda fuori dal vetro
ed un raggio di sole le illumina gli occhi che non hanno lacrime. E’ giorno,
anche oggi, di nuovo.
Si alza dal letto e prepara
il caffè. Oggi è festa. Oggi è festa per cosa e per chi? Accende distratta una
sigaretta. Quella delle sei e trentacinque. Del lunedì, del martedì, del mercoledì,
della domenica. Certo i ragazzi si alzeranno più tardi, oggi non deve
svegliarli. Questo deve ricordarselo nei giorni di festa. E Marco, il profilo,
l’ombra di Marco, girerà tutto il giorno per casa, occuperà un posto in più sul
divano, sposterà qualche oggetto che lei dovrà poi con calma rimettere a posto.
Non che qualcuno se ne accorgerebbe. Che è fuori posto. A casa di Livia nessuno
sa dove stanno, dove vanno le cose. Per questo c’è lei. Sempre. Per tutti e per
tutto c’è lei. Anche se nessuno la vede da un pezzo.
Silenziosa e invisibile
perlustra le stanze adesso. Raccoglie maglie, pantaloni, calzini, mutande. Li
osserva, li annusa. Pensa alla cesta che ha fatto fare del bagno. La cesta dei
panni sporchi. Quella che usa solo lei da sempre. Pensa alle mille parole
sprecate, dette, ripetute, urlate, implorate. No non ci pensa. Non ha neanche
senso. Avvia la lavatrice e mette in ammollo le cose che ha scelto di lavare a
mano. Mentre il bacile si riempie e la schiuma si gonfia tira su col naso. Sono
giorni che si trascina questa maledetta influenza che non vuole passare.
L’hanno avuta tutti. E’ stato un buon diversivo in fondo. Un ciclico déjà-vu,
ma pur sempre un diversivo. Ed è anche durato un bel po’. Perché l’hanno presa
a turno. Ha iniziato Marco. Insomma iniziato è una parola grossa. Per Livia
almeno. Che sa quando l’influenza le va via, che smette di tossire, di
starnutire e di tirar su col naso, ma non sa quando inizia, che niente le
cambia. Marco trentasette di febbre e sei giorni a letto di lamenti disperati.
E di silenzio totale che forse i ragazzi sarebbe meglio che andassero dalla
nonna che fanno troppo rumore e a me scoppia la testa. E colazione e pranzo e
cena e sigarette, soprattutto quelle, e televisione e giornali e riviste e
telefono e diocosaltrotiserve nel letto. Senza tregua. Poi uno alla volta è
toccato ai ragazzi. E lì la battaglia è stata, da cliché, a corrente alternata. Di mattina un delirio
di malanni e di invocazioni di aiuto-amore-assistenza-pietà sto troppo male
anche se non ho più febbre non ce la posso fare ad andare a scuola!, di sera
non ho più niente cazzomamma perché non vuoi farmi uscire!
Guarda l’orologio Livia.
Neanche avesse un impegno, un appuntamento. Le sette. Se non fosse domenica
dovrebbe svegliare i ragazzi e mentre litigano per il bagno preparare la
colazione, controllare gli zaini, trovare i guanti, i caschi, i portafogli, i
telefoni, i documenti e le chiavi del motorino. Meno male che ne hanno uno in
due. Almeno documenti e chiavi si trovano in una volta sola. Massimo in due. C’è
tempo per un’altra sigaretta e un secondo caffè. Un privilegio dei giorni di
festa.
Stamattina l’aria è più
fredda. Rientra in camera da letto e prende una vecchia giacca di lana
dall’attaccapanni. Mentre Marco dorme il sonno dei giusti. Esce sul balcone
nell’aria frizzante. E’ domenica, fa freddo ed ha l’influenza. Avrebbe potuto
chiedere a Marco di toglierle e stenderle i panni visto che resterà a casa. E
di innaffiare le piante. Le sue piante. Quelle di cui lui va tanto fiero che
crescono rigogliose senza chiedere niente. A lui. A Livia si. A Livia chiedono
acqua e a volte anche della terra nuova, del concime, dell’antiparassitario. Ma
è solo un pensiero. Neanche. In fondo loro qualcosa le danno. Colori. Intensi e
vivi. E’ quasi un peccato che stamattina fa freddo.
Ripiega i panni e li divide
in tante file ordinate sopra il divano. Quella più grande è quella dei panni da
stirare. La più misera è quella delle sue cose. Esce poco Livia. Per far la
spesa, per qualche commissione, per le sigarette. Qualche volta accompagna i
ragazzi a una festa, o li va a prendere, in piena notte. Lei, non Marco, che la
mattina deve andare a lavoro o che la domenica è l’unico giorno che può
riposare.
Le sette e quaranta. Tommy
ha accordato il suo orologio biologico ai ritmi immutabili dei giorni di Livia
con una precisione che ha del grottesco. Ha avuto poco tempo per fare il
cucciolo pestifero. E’ arrivato quando i ragazzi avevano da tempo smesso di
chiederlo. Marco non voleva altri impegni. Altri. Impegni. E in altrettanto
poco tempo ha capito che c’era una sola persona che poteva dargli tutto quello
di cui aveva bisogno. Compreso l’amore. Compreso i giochi. Perché Livia gli
aveva ritagliato del tempo anche per quello. Così alle sette e quaranta precise
il suo muso lucido e nero è sulle gambe di Livia che fuma la terza sigaretta
affianco ai panni ripiegati. La terza oggi che è un giorno di festa. La seconda
in un giorno normale, con i panni ancora da ritirare e le piante ancora da
innaffiare, dopo aver salutato i ragazzi e avergli lanciato dalla finestra il
cappello, la sciarpa, il diario, il quaderno per le esercitazioni, le
squadrette no che si rompono risali a prenderle, vienimi incontro che si fa
tardi.
Ok Tommy, acqua e
croccantini mentre la mamma va in bagno a vestirsi. Oggi c’è il parco, sei un
cane fortunato. Perché è domenica ed i panni sono già dentro. E le piante hanno
già avuto l’acqua.
Le otto e un quarto. In un
giorno normale Tommy starebbe ansimando vicino alla porta per rientrare in casa
a svegliare il padrone. Illuso che sia un privilegio concesso. Non sa che è
l’unica piccola amara vendetta di Livia. Che Livia concede a se stessa. Gli
apre la porta della stanza da letto e lo lascia entrare davanti a lei. Tommy
salta festoso sul letto su Marco incapace di provare a difendersi. Oh la paga
Livia quella vendetta, la paga. Perché Marco si alza furente che insomma che
cosa ci vuole a tenere un cane e che lui non ci dorme in un letto pieno di
peli; e lei dovrà disfarlo e dovrà stendere le lenzuola e le coperte all’aria,
mentre lui è nel bagno, e prima che vada via, che deve vederlo per esserne
certo. La paga. Ma sente la sua voce. Ancora impastata di sonno. Rivolta a lei.
Come nelle mattine di tanti anni fa. La sente e si chiede perché vuole ancora
sentirla. Perché vuole ancora sentirla se le graffia l’anima e le brucia dentro
come una manciata di sale, se sente di non avere più sangue da spendere a
bagnar le ferite.
Le otto e quarantacinque.
Fino alle nove per passare dal giornalaio a comprare il giornale e al
distributore delle sigarette. Di domenica.
Dodici sassi. Oggi è
domenica e sono dodici mesi. Dodici mesi che Andrea se ne è andato. Andrea che in
un soffio le ha messo le mani sul cuore. Quel cuore che lei non sentiva di
avere. Dodici sassi per dodici giorni. Di tutto e di niente e di non poter
stare.
Sono le nove. Livia ha
aperto la porta la porta di casa. C’è da stirare, da far da mangiare. Poi i
ragazzi, poi Marco, poi i letti, le stanze, poi il pranzo, poi i piatti, poi
Tommy, poi. Poi sera, poi notte, poi giorno.
Sulla mensola in bagno ci
sono trucchi e smalti e profumi. E ricordi. Soprattutto. Il rossetto è secco e
le brucia le labbra screpolate dal freddo. L’eyeliner. Quando aveva le lacrime
l’eyeliner e Livia non andavano molto d’accordo. Quando ha smesso di averle ha
smesso di usarlo. Ha l’aria stanca Livia. E truccata ce l’ha ancora di più.
Specie adesso, con questo trucco pesante. Ma va bene, va bene così. Perché ha
sonno Livia. Ha sonno da così tanto tempo e nessuno lo sa. Tommy. Tommy si,
Tommy qualche volta l’ha vista, l’ha vista crollare d’un pezzo sul divano o su
un letto o su una poltrona. Rannicchiarsi e farsi piccola, piccola come una
bambina. E l’ha vista rialzarsi indolente e distratta, l’ha vista parlare da
sola, ballare da sola, tenersi le mani da sola. L’ha vista di notte anche. L’ha
vista di notte guardare lontano. Guardare lontano e cominciare a contare.
E’ presto, è ancora presto. Ma
oggi il tempo di Livia ha un tempo diverso. Oggi segue i suoi conti. Ha aperto
la porta della sua stanza e Tommy si è buttato felice sul letto, felice su
Marco, con le zampe piene di fango. Non è entrata a riprenderlo.
Oggi è domenica e si mangia
alle due. Ma questa volta si mangia qualcosa di pronto. E forse non proprio
alle due. Lo prenderò per la strada tornando. Fa freddo e ho la febbre. E
dovrei stare a letto. Ma è festa. E sono dodici mesi. Ho dodici sassi da
posarmi sul cuore.
http://www.lavalledeitempli.net/2011/10/15/livia-%e2%80%93-di-cinzia-craus/
http://www.lavalledeitempli.net/2011/10/15/livia-%e2%80%93-di-cinzia-craus/
Nessun commento:
Posta un commento